mercoledì 24 settembre 2008

Doppio cognome, continuano i deliri della Corte di Cassazione

L’insostenibile creatività della solita sezione
Nel nome della madre, questa volta, rischia di commettersi un altro 'piccolo delitto' ai danni del diritto e dell’equilibrio dei poteri nel nostro Paese.
Un nuovo tentativo di imporre soluzioni legislative attraverso una sentenza 'creativa' della Corte di Cassazione, scavalcando di fatto il Parlamento, facendo leva e forzando allo stesso tempo il diritto europeo.
Il caso è quello di una coppia che, di comune accordo, vorrebbe trasmettere ai figli il cognome materno anziché quello paterno, come previsto dalla normativa vigente e com’è da consuetudine stratificatasi nei secoli.
Per due gradi di giudizio si sono visti rifiutare la richiesta. Per il semplice fatto che la legge non lo prevede e – come dovrebbe essere naturale – un giudice non può che applicare le norme esistenti. Ieri invece la prima sezione civile della Cassazione ha emesso un’ordinanza nella quale da un lato si valuta che i tempi siano maturi per cambiare la consuetudine italiana e, dall’altro, si cerca di colmare direttamente il vuoto normativo in materia.
Come? Chiedendo di trasmettere gli atti al primo presidente della stessa Cassazione, affinché valuti se rimettere la questione alle sezioni unite.
Queste ultime potrebbero, «adottando un’interpretazione della norma di sistema costituzionalmente orientata», 'disapplicare' in sostanza la legge per come è oggi e prevedere – almeno in caso di comune accordo tra i genitori – che possa essere trasmesso ai figli legittimi il cognome della madre.
Diversamente, sentenzia sempre la prima prima sezione della Corte suprema, «se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell’attività interpretativa», andrebbe valutato «se la questione possa essere rimessa nuovamente alla Corte Costituzionale».
Ora, che si possano cambiare le norme e le consuetudini sulla trasmissioni del cognome non è certo un tabù. Nella passata legislatu­ra, un disegno di legge era già stato ampia­mente discusso in Parlamento e l’iter del­l’approvazione è stato interrotto solo dallo scioglimento delle Camere. Nulla impedi­rebbe ora di riprendere in mano quel testo o altri analoghi disegni di legge già ripresenta­ti.
Per discuterli, modificarli ove fosse neces­sario, e approvare una nuova norma. Legife­rando – occorre ricordarlo – come è preroga­tiva esclusiva del Parlamento democratica­mente eletto.
Per l’ennesima volta, invece, la stessa sezione che ha emesso la discussa sentenza sul caso di Eluana Englaro prova a forzare, con un’interpretazione creativa dei propri poteri. Si tenta così di imporre un cambiamento della legge sulla base, tra l’al­tro, di motivazioni che appaiono discutibili sul piano del diritto.
Basti dire che la senten­za si basa «sul probabilemutamento delle norme comunitarie», riferito alle previsioni del Trattato di Lisbona ancora non del tutto ratificato.
E soprattutto che, appellandosi al principio della non discriminazione per ses­so (in questo caso della donna) finisce per intervenire in una materia – il diritto di fami­glia – che gli stessi trattati costitutivi dell’U­nione europea prevedono essere di esclusiva competenza nazionale. Un evidente corto­circuito.
Con il rischio, per il futuro, di vede­re stravolgere altri pezzi fondamentali delle regole che presiedono alla nostra vita fami­liare, sulla base non di un processo di rifor­ma democratica, ma delle sensazioni, dei convincimenti e magari degli umori del pre­sidente di una sezione della Cassazione.

fonte: Avvenire

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