giovedì 16 ottobre 2008

Genocidio comunista. Holodomor, sfida per la memoria

Non chiedono soldi, né risarcimenti, ma solo che il mondo si ricordi di loro. Gli ucraini discendenti delle vittime dell’Holodomor, la carestia indotta da Stalin che negli anni Trenta portò alla morte oltre sette milioni di persone, da anni si battono affinché la loro tragedia sia riconosciuta come uno dei grandi genocidi del Novecento.
Anche gli ucraini d’Italia, i duecentocinquantamila immigrati regolari, chiedono al nostro Paese un gesto di solidarietà storica. Lo fanno attraverso una lettera aperta inviata ai presidenti delle Camere da Oleksandr Horodetskyy, presidente dell’Associazione cristiana degli ucraini in Italia, che chiede al nostro Parlamento di riconoscere l’Holodomor come 'genocidio del popolo ucraino', di condannare il principale responsabile, Stalin, e – forse il punto più importante – di inserire la conoscenza di quel dramma nei programmi scolastici.
In realtà, una bozza di risoluzione orientata proprio in questo senso giace già, da anni, nei cassetti della Camera: si tratta della risoluzione 7/00384 proposta da Gustavo Selva alla commissione Affari esteri e comunitari, con un «iter in corso» (mirabili eufemismi dell’anchilosata burocrazia parlamentare) dal 3 gennaio 2004. Gli ucraini d’Italia vorrebbero un passo più concreto. La catastrofica carestia che colpì l’Ucraina nei primi anni Trenta, raggiungendo il picco tra il 1932 e il 1933, fu la diretta conseguenza della collettivizzazione dell’agricoltura operata dal regime comunista; in Ucraina l’iniziativa si abbatté sulla struttura economica del Paese, largamente agricolo e ripartito in fattorie di proprietà individuale.
Nelle campagne furono inviati coloni di stretta fede bolscevica, selezionati tra gli operai industriali delle città, per scalzare i tanti contadini ucraini che si opponevano alla collettivizzazione: i kulaki, come vennero spregiativamente definiti dal regime che li accusava di nascondere il grano. La produttività agricola crollò e il grano inviato a Mosca nel 1932 fu poco più di un terzo di quanto programmato: un deficit che scatenò la repressione bolscevica, prima diretta contro i kulaki e le loro famiglie, con oltre centomila condanne a morte, alla detenzione o alla deportazione nei gulag siberiani, poi con la deliberata decisione di affamare l’Ucraina. L’Unione sovietica aveva già conosciuto una grave carestia nel 1921-1923 e un’altra l’avrebbe afflitta nel 1947, ma mentre queste sono imputabili al collasso infrastrutturale seguito alla Rivoluzione bolscevica o alla Seconda guerra mondiale, quella ucraina del 1932-1933 fu causata da una precisa scelta politica, messa in pratica con apposite azioni amministrative.
Stalin e i vertici comunisti 'punirono' l’Ucraina per le resistenze alla collettivizzazione agricola e per il mancato raggiungimento dei livelli di produzione previsti da Mosca, e infatti le misure restrittive si concentrarono contro i contadini di etnia ucraina: una commissione speciale guidata da Vjaceslav Molotov, il futuro ministro degli Esteri, ordinò il 9 novembre 1932 di requisire dai villaggi ucraini non solo il grano, ma anche barbabietole, patate, verdure e ogni altro tipo di cibo; il 6 dicembre il decreto fu rafforzato dal divieto di commerciare generi alimentari e dalla requisizione delle risorse finanziarie.
Apposite brigate effettuarono incursioni nelle fattorie per portar via il grano raccolto, senza tener conto se i contadini avessero cibo sufficiente per nutrirsi o se si lasciavano sementi per la prossima semina; l’intera regione tra il Don e il Caucaso fu isolata dal resto del mondo dalle truppe dell’Nkvd, la polizia politica del regime, e al suo interno si iniziò presto a morire d’inedia. Il bilancio è ancora oggetto degli studi degli storici; la cifra generalmente accolta indica almeno sette milioni di vittime, ma esistono anche stime al ribasso (tre milioni) e al rialzo (fino a dieci milioni).
Tema di dibattito è anche la possibilità stessa di applicare la definizione di 'genocidio' all’Holodomor: tramontate le difese ideologiche che minimizzavano la carestia e la imputavano non a scelte deliberate, ma a errori involontari (e agli stessi kulaki), resta da definire la volontà di colpire un determinato gruppo etnico, o piuttosto un certo gruppo sociale – una 'classe', nel lessico marxista. Anche quest’interpretazione appare però negli ultimi anni in ribasso, e trova sempre maggior credito una lettura dei fatti che insiste sulla specifica volontà di colpire gli ucraini in quanto tali, sia pure identificandoli con i kulaki «nemici del popolo».
È questa la posizione sulla quale insistono non solo gli ucraini d’Italia, ma anche lo stesso governo di Kiev, che rimarcano come la carestia indotta si sia affiancata a un processo di russificazione culturale e sprituale che ancora oggi segna l’Ucraina, con un’ampia porzione del Paese ormai abitata da russofoni. Una spina nel fianco nel Paese della Rivoluzione arancione, in bilico tra Europa e Russia, che si appresta a celebrare, il quarto sabato di novembre, il settantacinquesimo anniversario delle stragi.

fonte: Avvenire

domenica 28 settembre 2008

“L'Islam trasformerà l'Occidente”. Parola di sceicco. Europa sempre più terra di conquista musulmana

L’Islam ha le idee chiare e programmi precisi sull’Occidente, ma l’Occidente li ha sull’Islam?

Lo sceicco Omar Bakri, originario della Siria, ha istituito e dirige l’Islamic Religious Court a Londra ed è a capo dell’organizzazione islamica Al-Muhajiroun.
Tiene lezioni e conferenze in Inghilterra e nel mondo. Queste sono alcune sue tipiche interviste rilasciate recentemente a quotidiani e televisioni. Le sue dichiarazioni e i suoi insegnamenti sono emblematici dei piani islamisti contro le democrazie europee.
Il quotidiano arabo-londinese Al-Hayat, per esempio, in una serie di articoli sulla comunità musulmana in Gran Bretagna, ha raccolto queste sue affermazioni trascritte dal Middle East Media Research Institute.

Intervistatore: Ho ascoltato la sua lezione sulle fondamenta del credo, e sembra che non siate interessati a portare gli studenti nella società britannica, cioè non li aiutate a essere musulmani britannici.
Bakri: Nel mio metodo di educazione sono contrario all’idea di integrazione. Non crediamo che sia consentito integrarsi nelle società in cui viviamo. Non sono un sostenitore dell’isolamento dalla società e non sono un sostenitore dell’integrazione in essa. Sono un sostenitore di cambiare la società per mezzo della mia religione, non per essere cambiato da essa.

E dove condurrà questa vita di separazione?
La vita di separazione condurrà a un cambiamento nella situazione del paese in cui viviamo, come i musulmani hanno cambiato la situazione in Abissinia e in Indonesia. Trasformeremo l’Occidente in un regime islamico per invasione esterna o culturale. Se Allah vuole, trasformeremo l’Occidente in Dar Al-Islam [cioè, in una regione sotto la regola islamica, ndr] per mezzo di un’invasione dall’esterno. Se uno Stato islamico cresce e invade l’Occidente noi saremo il suo esercito e i suoi soldati dall’interno. Altrimenti cambieremo l’Occidente attraverso un’invasione ideologica da qui, senza guerra e uccisioni. O noi predicheremo a loro ed essi accetteranno l’Islam, o noi vivremo tra loro ed essi saranno influenzati dalle nostre vite e accetteranno l’Islam come una soluzione politica ai loro problemi, non come una soluzione ideologica. Gli occidentali ci hanno imposto una legge artificiale, e il futuro regime islamico imporrà loro regole islamico-religiose. Il musulmano agirà secondo questa legge volontariamente e chiunque non sia musulmano farà questo per forza di legge. Io non obbedisco alla legge artificiale. Anche se non la vìolo, non obbedisco ad essa. Allah ha detto: Non obbedite agli infedeli e agli ipocriti.

Come si può vivere in una società in cui si è un estraneo?
L’Islam è una religione della legge della natura. Quando un uomo incontra problemi egli utilizza la legge della natura. In America si è sviluppata recentemente una discussione sulla separazione tra uomini e donne nelle università.

Perché?
Perché ci sono problemi. Ci sono ragazze che restano incinte a un’età giovane, senza marito. Non c’è alcun motivo di mischiare i sessi all’interno delle università. Io vivo ai margini della legge esistente, finché ciò sia compatibile con la legge naturale e non sia in conflitto con l’Islam. Alcuni paesi hanno cominciato a discutere la questione della punizione dei ladri. Nell’ex Unione Sovietica dicevano che avrebbero tagliato la mano del ladro. Questa è la legge di natura, perché è la legge severa che dissuade il ladro dal commettere il reato.

Lei è accusato di legami con organizzazioni verso le quali la Gran Bretagna è ostile e che essa vede come nemici. Lei predica ai suoi alunni di vedere il movimento talebano e Osama bin Laden come il gruppo che sarà salvato il Giorno del Giudizio.
Finché le mie parole non diventano azioni, non fanno del male!

La seguente intervista, invece, è stata rilasciata alla Tv libanese OTV e riportata da Memri Tv.

Intervistatore: Perché lei ce l’ha con l’Inghilterra?
Bakri: I miei problemi con la Gran Bretagna sono causati dal fatto che la sua legge non è la legge di Allah. Io seguo il vero Salafismo: pregare una religione pura e completa, dove noi brandiremo le armi contro chiunque ci combatterà. Se mi s’impedisce di seguire la legge di Allah, allora non mi rimane che emigrare in Libano. In Gran Bretagna, nelle università, l’Islam si sta diffondendo in misura mai vista prima, e i non musulmani vi si stanno convertendo alla media di 21 persone al giorno. Nel giro di vent’anni la società britannica avrà una maggioranza musulmana. È per questo che le istituzioni di questo regime laico stanno combattendo chiunque si avvicini all’Islam.

Come giudica le vittime innocenti di attentati islamisti?
In caso di autodifesa ci sono vittime innocenti. Vengono uccise per sbaglio, come danni collaterali, non intenzionalmente. Quando le bombe americane colpiscono i musulmani hanno il diritto di fare rappresaglie, e possono esserci vittime.

C’è una differenza tra combattere un soldato americano o un militare israeliano impegnato in operazioni belliche?
Forse che quando un soldato americano si toglie la divisa e si mette in pigiama diventa proibito colpirlo?

C’era una base militare nelle Twin Towers?
Non si è trattato di un attentato solo alle Twin Towers ma anche al Dipartimento della Difesa statunitense. L’Undici settembre è stata un’operazione che ognuno giudica a suo modo, c’è chi è contrario e chi favorevole.

E quando gli esplosivi sono messi sui treni o nei bar?
Se si è sotto occupazione nemica e si compiono attacchi è una cosa... Voi potete definire queste operazioni come terrorismo. Ma oggi l’America rappresenta il campo del terrorismo occidentale. Ci sono due tipi di terrorismo: quello benedetto e quello deplorevole. Lo stesso è per la violenza. La violenza può uccidere o salvare vite. La violenza americana uccide, così il suo terrorismo è condannabile, laddove la violenza dei mujahidin è usata per difesa e come rappresaglia per proteggere vite e onore. Il loro terrorismo è benedetto. Non ogni terrorismo è deprecabile.

Quindi perché lei ha preso la cittadinanza inglese?
Io non l’ho presa. Loro me l’hanno data. Io appartengo all’Islam. Non appartengo all’Inghilterra. Io ero un musulmano che viveva in Inghilterra, ora vivo in Libano.

E allora perché non l’ha rifiutata?
Io non uso i loro documenti, non ho il passaporto inglese, ne ho uno libanese. (Ospite in trasmissione: Quello inglese gliel’hanno tolto).

Intervistatore: Perché non l’ha restituito lei prima che glielo requisissero?
Loro mi hanno tolto il mio diritto di cittadinanza. Non mi hanno più dato il passaporto perché mi sono rifiutato di giurare fedeltà alla regina e alla legge inglese. Io obbedisco solo ad Allah e al suo messaggero.

fonte: Occidentale

sabato 27 settembre 2008

La «cellula del Sauerland» i kamikaze bianchi che fanno paura all’Europa

Li chiamano «kamikaze bianchi», sono l’incubo dei servizi segreti occidentali e delle basi Nato in Afghanistan.
Da mesi all’entrata di quelle fortezze campeggia la foto di Eric Breininger. Ha un volto da sbarbato e il passaporto tedesco non gli attribuisce più di 21 anni. La spiegazione sotto la foto parla chiaro. È considerato un pericoloso militante suicida, un fanatico addestrato nei campi del terrore fondamentalista e alla ricerca di un obbiettivo.
Lo fa capire pure lui nel video registrato in un santuario integralista tra le montagne del Waziristan pakistano. Eric, il kamikaze bianco, imbraccia una mitragliatrice russa annuncia, a nome dell’Unione del Jihad islamico, attentati contro i connazionali per «il loro coinvolgimento nella guerra in Afghanistan».
Dallo stesso campo è passato anche Houssain al-Malla, un 23enne libanese capace di sfoggiare apparenze occidentali e il più insospettabili degli accenti tedeschi. Eric e Houssain sono i più famosi, i più conosciuti, i più temuti tra i «kamikaze bianchi». Sull’aereo della Klm forse cercavano proprio loro. A loro si riferisce l’appello della polizia tedesca sulle tracce di due pericolosi fondamentalisti. L’insospettabile coppia sarebbe dunque tornata alle origini e si preparerebbe a colpire.
L’incubo, del resto, come già con Mohammed Atta, prende corpo dalla tranquilla Germania, alla vigilia del G8 del 7 giugno 2007.
In quei giorni la Cia passa a Berlino le comunicazioni intercorse tra alcuni telefoni tedeschi e una località del Waziristan pakistano base dell’Unione del Jihad islamico, una cellula al qaidista guidata da militanti uzbeki.Agli inquirenti tedeschi ci vuol poco per scoprire che da quel campo sono passati, nel marzo 2006, Fritz Gelowicz e Adem Yilmaz.
Il primo è il figlio 28enne di un medico bavarese convertitosi all’islam e trasformatosi in un fanatico nemico della civiltà occidentale. Il secondo è un turco trapiantato in Germania.
I due, con la collaborazione del 22enne Daniel Martin Schneider, un altro tedesco diventato esperto d’esplosivi durante il servizio militare, stanno accumulando prodotti chimici da usare nel corso di almeno tre attentati contro altrettanti basi americane.
Il complotto viene sventato ai primi d’ottobre di un anno fa con l’ irruzione nella casa di campagna del Sauerland dove i tre stanno già miscelando gli esplosivi. Ma il cerchio non è chiuso.
L’operazione, innescata da un contrattempo, non ha permesso di identificare tutti i membri della cellula del Sauerland e chiarire i legami con il «centro multiculturale» di Neu Ulm, nel sud della Germania dove Fritz Gelowicz venne convertito all’islam da Yehia Yousif un predicatore da tempo svanito nel nulla.
Da Neu Ulm si snoda la pista che porta Gelowicz e decine di militanti prima in Dubai, poi in Iran e infine nel Waziristan pakistano. E a confermare il timore che quella pista sia stata usata da molti altri militanti ci pensa Cüneyt Ciftci, un ventenne tedesco di origini turche svanito assieme ad Eric Breininger Houssain al-Malla lo scorso ottobre.
Il 3 marzo di quest’anno Ciftci si trasforma nel primo kamikaze con cittadinanza tedesca guidando un camion imbottito d’esplosivo contro una base americana di Khost.
Nei giorni successivi la Germania assiste sconvolta al video testamento di quel giovane felice e sorridente che canta «fortunati noi perché la morte ci regala una nuova alba, fortunati noi bruciati in nome dell’Islam». Da ieri la stessa Germania si chiede quanti siano gli Eric e i Ciftci nascosti nelle sue città.

fonte: Il Giornale

venerdì 26 settembre 2008

Islam, Fatwa saudita: Donne guardino con un solo occhio. Uomini impongano a moglie un niqab monofessura

Sono troppi, davvero troppi i centimetridi pelle che il niqab - il velo integrale islamico - permette divedere.
La sensibilità d'un uomo potrebbe essere turbataosservando le fessure che mostrano gli occhi, spesso truccati,delle donne.
Quindi, il noto dotto islamico Sheikh Mohammed alHabdan ha invitato i pii mariti a fare pressione sulle loro mogliper utilizzare un niqab con una sola fessura e, possibilmente, piccola: in fondo, guardare da un solo occhio è sufficiente pernon inciampare.
Il sito web della tv al Arabiya riporta estesamente il nuovoeditto religioso del predicatore, molto noto per le sueapparizioni televisive.
"Una donna pia non esce di casa truccataanche se coperta con il niqab", premette il dottore della legge. Quindi è opportuno che le donne indossino un velo che non permetta d'intravedere la lascivia del trucco. Cioè, "un niqab con una sola fessura, possibilmente piccola, giusto per noninciampare quando si cammina".
La controversa "fatwa" è stata pronunciata in una trasmissione dell'emittente satellitare religiosa, al Majd. L'imam ha invitato gli uomini a "fare pressione sulle proprie donne" perché adottino il niqab monocululare. E ha dato diverse motivazioni. Una delle quali di carattere economico.
"La donna, per abbellire la zona intorno agli occhi, spende un sproposito", ha affermato il religioso, con un'argomentazione che fa pensare a esperienze vissute in prima persona. Ma l'argomento più forte è quello sessuale. Le donne, con quel filo di trucco che s'intravede tra le fessure del niqab, "inducono in tentazione i giovani, facendo loro salire il sangue al cervello".
Non parliamo del "colmo" di quelle donne, anche sposate, che osano truccarsi sotto il velo.
"A che pro lo fanno?" chiede lo sceicco, facendo intendere d'essere ben informato sugli scopi reconditi d'un comportamento così "provocatorio". Come si rimedia, allora? Facile, le donne guardino da un solo occhio e indossino niqab all'uopo realizzati.
L'imam sostiene che bisognerebbe vietare "la vendita dei niqab non consoni alla Shariya islamica", i quali "hanno ben due fessure e, per giunta, sono spesso talmente grandi da fare intravedere le guance". Bisogna, continua il dotto, ritornare ai saggi discepoli del Profeta, che hanno imposto alle loro donne un velo casto "con una fessura piccola per un solo occhio".
In fin dei conti cosa è peggio? "Inciampare su una pietra per la strada, oppure fare incendiare le voglie d'un giovane, guadagnandosi la dannazione
eterna?"

fonte: Apcom

Il testamento biologico divide eccome, ma in modo un po’ ovattato

“Nessuna svolta”, era stato il commento di monsignor Elio Sgreccia, già presidente della Pontificia accademia per la vita.
“Nulla è mutato”, ha ribadito ieri, intervistato da Avvenire, il cardinale Camillo Ruini; aggiungendo “in tutta franchezza” di condividere “le preoccupazioni espresse da Giuliano Ferrara”.
E di volerlo “rassicurare” sul fatto che scopo della legge, come è tornata a spiegare Eugenia Roccella sul Giornale, sarebbe quello di fermare “il lungo movimento sotterraneo che avrebbe voluto condurre all’eutanasia senza nemmeno passare dal Parlamento”, lasciando il malato “sul pendio scivoloso dell’arbitrio di un giudice”.
La raffica di autorevoli interventi e precisazioni volti a puntualizzare, e a circoscrivere, le parole del cardinale Angelo Bagnasco all’assemblea della Cei indicano, di riflesso, l’esistenza nel mondo cattolico di un dibattito acceso, pur nei modi tradizionalmente ovattati.
La “svolta tattica”, come qualcuno la chiama, sulla legislazione di fine vita è arrivata forse in modo troppo verticale e repentino per essere subito metabolizzata da quei settori più impegnati, e da anni, sui temi bioetici. Realisti e intransigenti discutono nel Movimento per la Vita; e va notato che sull’ultimo numero di Medicina & Morale, la rivista bioetica della Cattolica, Carlo Casini e Maria Luisa Di Pietro, presidente di Scienza & Vita hanno firmato insieme un articolo sul caso Englaro, assai problematico sulle sue eventuali ricadute legislative.
Dura contrarietà invece dal comitato Verità e Vita, retto dal bioeticista Mario Palmaro, voce dell’ala intransigente del mondo pro life.Non uniforme è anche il mondo dei Medici cattolici, nonostante un comunicato dell’Amci di Milano aveva salutato con “estremo piacere” le aperture che rimbalzavano a fine agosto dal Meeting di Rimini.
L’unanimismo non appartiene neppure a un movimento sempre compatto e attento alle indicazioni della Cei come Cl, e che ha visto un politico come Maurizio Lupi (Pdl) tra i primi a schierarsi assieme a Roccella sull’opportunità della legge. Sul giornale online di area Compagnia delle opere, il Sussidiario. net, Assuntina Morresi ha approvato la necessità della nuova linea, motivandola con i rischi del vuoto legislativo dopo il caso Englaro.
Le ha risposto senza condividere, tra gli altri, Felice Achilli, presidente di Medicina e persona, l’associazione di settore ciellina. Secondo il quale “il problema non è la sussistenza di un ‘vuoto normativo’”, che invece è adeguatamente presidiato dalla Costituzione e dalla deontologia medica.Il nocciolo duro delle perplessità sta nel convincimento di molti che introdurre una legge sul fine vita, anche se verrà fatto con ogni accortezza, finirà per creare mentalità, rafforzando l’idea già diffusa che esista una “vita non più degna”.
Inoltre per molti medici, tra cui Achilli, la legge minerebbe la fiducia del paziente nel medico, che invece è proprio il vulnus da curare. I segnali maggiori vengono comunque da Scienza & Vita, il pensatoio bioetico ruiniano. L’annuncio di Roccella sulla legge aveva causato più di uno scossone interno, e ieri finalmente si è riunito a Roma il direttivo per decidere la linea da seguire.
Ne è uscito ovviamente un appoggio a Bagnasco, ma intessuto di molte cautele: “Scienza & Vita ribadisce i principi che ha sempre sostenuto a tutela della vita umana e della sua indisponibilità e auspica che un eventuale intervento legislativo si ispiri a quel ‘favor vitae’ che è la vera matrice unificante dei valori costituzionali”, si legge nel comunicato. All’ordine del giorno c’erano anche le dimissioni del professor Adriano Pessina, che aveva abbandonato polemicamente proprio a causa della svolta sul testamento biologico.
Le dimissioni sono state respinte, rilanciando almeno nella forma le possibilità di dialogo tra posizioni differenti che, pare di capire, non sono solo quelle di Pessina.
Urge dibattito, e al momento sono latitanti molti politici di centrodestra che, negli anni scorsi, si sono più spesso fatti sentire su questi temi.

fonte: Il Foglio

mercoledì 24 settembre 2008

Doppio cognome, continuano i deliri della Corte di Cassazione

L’insostenibile creatività della solita sezione
Nel nome della madre, questa volta, rischia di commettersi un altro 'piccolo delitto' ai danni del diritto e dell’equilibrio dei poteri nel nostro Paese.
Un nuovo tentativo di imporre soluzioni legislative attraverso una sentenza 'creativa' della Corte di Cassazione, scavalcando di fatto il Parlamento, facendo leva e forzando allo stesso tempo il diritto europeo.
Il caso è quello di una coppia che, di comune accordo, vorrebbe trasmettere ai figli il cognome materno anziché quello paterno, come previsto dalla normativa vigente e com’è da consuetudine stratificatasi nei secoli.
Per due gradi di giudizio si sono visti rifiutare la richiesta. Per il semplice fatto che la legge non lo prevede e – come dovrebbe essere naturale – un giudice non può che applicare le norme esistenti. Ieri invece la prima sezione civile della Cassazione ha emesso un’ordinanza nella quale da un lato si valuta che i tempi siano maturi per cambiare la consuetudine italiana e, dall’altro, si cerca di colmare direttamente il vuoto normativo in materia.
Come? Chiedendo di trasmettere gli atti al primo presidente della stessa Cassazione, affinché valuti se rimettere la questione alle sezioni unite.
Queste ultime potrebbero, «adottando un’interpretazione della norma di sistema costituzionalmente orientata», 'disapplicare' in sostanza la legge per come è oggi e prevedere – almeno in caso di comune accordo tra i genitori – che possa essere trasmesso ai figli legittimi il cognome della madre.
Diversamente, sentenzia sempre la prima prima sezione della Corte suprema, «se tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell’attività interpretativa», andrebbe valutato «se la questione possa essere rimessa nuovamente alla Corte Costituzionale».
Ora, che si possano cambiare le norme e le consuetudini sulla trasmissioni del cognome non è certo un tabù. Nella passata legislatu­ra, un disegno di legge era già stato ampia­mente discusso in Parlamento e l’iter del­l’approvazione è stato interrotto solo dallo scioglimento delle Camere. Nulla impedi­rebbe ora di riprendere in mano quel testo o altri analoghi disegni di legge già ripresenta­ti.
Per discuterli, modificarli ove fosse neces­sario, e approvare una nuova norma. Legife­rando – occorre ricordarlo – come è preroga­tiva esclusiva del Parlamento democratica­mente eletto.
Per l’ennesima volta, invece, la stessa sezione che ha emesso la discussa sentenza sul caso di Eluana Englaro prova a forzare, con un’interpretazione creativa dei propri poteri. Si tenta così di imporre un cambiamento della legge sulla base, tra l’al­tro, di motivazioni che appaiono discutibili sul piano del diritto.
Basti dire che la senten­za si basa «sul probabilemutamento delle norme comunitarie», riferito alle previsioni del Trattato di Lisbona ancora non del tutto ratificato.
E soprattutto che, appellandosi al principio della non discriminazione per ses­so (in questo caso della donna) finisce per intervenire in una materia – il diritto di fami­glia – che gli stessi trattati costitutivi dell’U­nione europea prevedono essere di esclusiva competenza nazionale. Un evidente corto­circuito.
Con il rischio, per il futuro, di vede­re stravolgere altri pezzi fondamentali delle regole che presiedono alla nostra vita fami­liare, sulla base non di un processo di rifor­ma democratica, ma delle sensazioni, dei convincimenti e magari degli umori del pre­sidente di una sezione della Cassazione.

fonte: Avvenire

martedì 23 settembre 2008

Testamento biologico, Eminenza, qui la cosa non funziona

Il capo dei vescovi molla una posizione strategica sul tema della vita

Eminentissimo e reverendissimo cardinal Bagnasco, stavolta non siamo proprio d’accordo.
La sua di ieri fu una prolusione buona e onesta, ma la parte relativa al testamento biologico, altrimenti detto dichiarazioni o direttive anticipate, dava l’impressione di una rinuncia.
Di più, le sue parole di accettazione del testamento biologico davano l’impressione di una risposta intimidita e confusa a una cultura postmoderna che si mangiucchia pezzo per pezzo non tanto, ciò che non è la nostra specialità, la dottrina della chiesa, quanto ciò che resta della resistenza culturale al relativismo soggettivista.
Se abbiamo capito bene, al di là dei dettagli e delle interpretazioni, il cuore del suo intervento sul caso di Eluana Englaro, e la sua novità, è in questo: fate pure una legge in cui si registri come norma universalmente valida la volontà soggettiva sul tema di come si desidera morire.
La vita è un tabù, nel senso che è un mistero.
Nel mondo liberale figlio della cultura creaturale giudeo-cristiana e del suo concetto di persona titolare di diritti innati, “life, liberty and the pursuit of happyness”, la vita è un dogma costituzionale. Se le cose stessero altrimenti e laddove effettivamente stanno altrimenti, della vita si potrebbe fare, e si fa in effetti, quel che si decide di fare di volta in volta, in base a considerazioni di arbitrio soggettivo che si fanno legge, cultura, norma giuridica e morale.
Al servizio anche della morte, se necessario, come nei casi dell’aborto volontario e dell’eutanasia. Se su questo fronte la chiesa cattolica tiene, tutto tiene, in un certo senso.
I tabù sono fatti anche per essere elusi o violati o trasgrediti. Ma abbatterli e proclamarli morti e sepolti di fronte al mondo equivale ad abbattere il mistero, che è il pane della fede e della comunione liturgica nella chiesa, se non erriamo.
Per quanto ci riguarda, peggio ancora, equivale a recidere quel “legame” di intelletto e d’amore che dà senso a una civiltà liberale e alla libertà.
Equivale a trasformarla piano piano, passo dopo passo, in una democrazia libertaria su fondamento ateo e materialista.
Puoi rifiutare una cura e lasciarti morire.
E’ un fatto. Ma una legge che stabilisca questo fatto come diritto è un’altra cosa.
Se la legge sia accettata e filtrata dal pensiero cristiano, è un’altra cosa ancora.

fonte: Il Foglio

venerdì 19 settembre 2008

Gran Bretagna. Gli imam dell'odio: Fate più figli e conquisteremo il Regno

Il Sun filma un convegno shock di islamisti nell'East London

I predicatori dell'odio sono tornati, denuncia il Sun. Il tabloid britannico ha mandato una squadra di reporter in incognito a una riunione di islamisti nell'East London, in occasione dell'anniversario dell'11 settembre: Anjem Choudary, fra i più noti predicatori radicali, definito il successore dello sceicco Omar Bakri, ha minacciato che i musulmani conquisteranno un giorno il Regno Unito e "la bandiera dell'Islam sarà issata a Downing Street".
Choudary, il cui discorso è stato filmato ed è disponibile sul sito del Sun, sostiene che un'esplosione demografica permetterà ai musulmani di prendere il controllo del paese, che sarà finalmente governato in base alla 'sharia' o diritto islamico. "L'Islam è superiore e non sarà mai sorpassato. La bandiera dell'Islam sarà issata a Downing Street" ha dichiarato il responsabile del gruppo islamico britannico 'Al-Ghurabaa'.
Di fronte a una folla di un centinaio di giovani musulmani adoranti, scrive il Sun, Choudary ha detto che sarebbe semplice per un vasto numero di musulmani dichiarare il jihad, o guerra santa, contro il Regno Unito, e che ognuno di loro potrebbe diventare "una bomba a orologeria pronta a esplodere". Il predicatore è stato accolto con una vera e propria ovazione, quando ha dichiarato: "Circa 500 persone diventano musulmane ogni giorno nel paese".
"L'Home Office (il ministero dell'Interno britannico, ndr) riferisce che ci sono 1,5 milioni di musulmani, ma ce n'erano 1,5 milioni dieci anni fa - ha proseguito Choudary - e dal momento che i nostri fratelli a Bethnal Green, Whitechapel o altri posti (abitati in prevalenza da musulmani, ndr) hanno otto o nove figli ciascuno; otto figli da una parte, dieci da un'altra, 15 figli da un'altra...Ci dovrebbero essere almeno sei milioni di persone".
"Potrebbe essere quindi attraverso la semplice conversione che il Regno Unito diventerà uno stato islamico - ha detto ancora l'avvocato islamista - potremmo non avere mai bisogno di conquistarlo dall'esterno". La manifestazione, un dibattito su come l'Occidente ha "appreso le lezioni" dell'11 settembre, si è svolta in una sala sopra in una moschea di Leyton, fra pesanti misure di sicurezza, riferisce il Sun. All'ingresso, spiegano i giornalisti, i buttafuori chiedevano documenti di identità ai non musulmani.
"Non ci integriamo con la cristianità - ha tuonato Choudary - ci assicureremo che un giorno vi possiate integrare nella legge islamica. I nostri occhi sono su Downing Street". E ancora: "Ecco perché gli inglesi sono così preoccupati - ha affermato - sarebbe semplice per noi dichiarare la guerra santa nel paese e ognuno di noi potrebbe diventare una bomba a orologeria pronta a esplodere. Ma non siamo persone che tradiscono" ha assicurato.
Oltre a Choudary sono intervenuti al convegno durato tre ore, con tanto di pause per cibo e preghiere, alcuni dei volti più noti dell'estremismo britannico, fra cui Abu Omar, Saiful Islam, Abu Saalihah e Omar Bakri, in collegamento con la webcam dalla sua casa di Beirut. Parole di netta condanna sono seguite da parte dei musulmani moderati.
Iqbal Sacranie, già segretario del 'Muslim Council of Great Britain', ha sottolineato che "simili dichiarazioni, immorali e irresponsabili, non sono una novità da parte di Omar Bakri e la sua gente. Queste persone - ha aggiunto - sanno di non rappresentare il punto di vista della grande maggioranza, se non dell'intera comunità, dei musulmani nel Regno Unito". Scotland Yard ha chiesto al Sun una copia del video dell'evento, che sarà passato al vaglio delle forze dell'ordine. Per il momento non è stata avviata alcuna inchiesta. Ma fonti della polizia spiegano che "vogliono vedere se ci sia stata una qualsiasi violazione della legge".
fonte: NotizieAlice

mercoledì 17 settembre 2008

Europa sempre più islamica. La sharia comanda in Gran Bretagna

Quando qualche mese fa l'arcivescovo di Canterbury aveva osservato che «l'adozione in Gran Bretagna di alcuni aspetti della sharia islamica è inevitabile» era stato crocifisso da destra e da sinistra.
Ma ora il sistema giudiziario del Regno Unito ha accettato i poteri di giudici islamici in cause di divorzio, violenza all'interno della famiglia e dispute finanziarie.Cinque corti che giudicano in base alla legge coranica sono in funzione a Londra, Birmingham, Manchester, Bradford e Nuneaton e presto seguiranno Edimburgo e Glasgow.
La rete è diretta dallo sceicco Siddiqi, capo del Muslim Arbitration Tribunal di Nuneaton nel Warwikshire, che ha spiegato al Sunday Times di aver agito in base all'Arbitration Act del 1996, la legge britannica che attribuisce agli arbitrati valore legale se entrambe le parti nella disputa danno ai giudici il potere di emettere una sentenza nel loro caso.
Secondo l'Arbitration Act il verdetto di una corte islamica è valido e può essere messo in pratica da un tribunale ordinario del Regno o anche dall'Alta Corte.
Lo sceicco magistrato dice che i primi giudizi sono stati emessi nell'agosto del 2007 e che da allora sono stati già più di un centinaio, in materia di divorzio islamico, eredità e liti varie tra vicini di casa. Siddiqi ha rivelato che sono stati regolati sei casi di violenza tra coppie sposate, in collaborazione con la polizia. E ha sottolineato che ai mariti colpevoli di maltrattamenti è stato imposto di prendere lezioni di «gestione della loro ira» e sono stati sottoposti alla vigilanza degli anziani della comunità.
Dopo la sentenza della Sharia Court le donne hanno ritirato la denuncia di fronte alla polizia britannica: fatto più che positivo, ha detto il giudice islamico, perché si sono salvati dei matrimoni dando alle coppie una seconda opportunità di cominciare il loro rapporto matrimoniale.
«Ci limitiamo a regolare gli affari della nostra comunità », ha concluso.Qualcuno ha ricordato che in base allo stesso principio dell'arbitrato, già prima della legge del 1996 in Gran Bretagna hanno funzionato corti di diritto ebraico, Jewish Beth Din per casi di diritto civile.
«Se si lasciano lavorare corti ebraiche non si possono discriminare quelle islamiche», ha osservato il Muslim Council for Britain. Ma il rischio che nella Gran Bretagna multietnica si accetti un «sistema legale parallelo» ha fatto levare voci scandalizzate. Dominic Grieve, ministro ombra conservatore della Giustizia chiede di sapere «quali tribunali britannici stiano avallando decisioni di questo genere, perché agiscono al di fuori della legge».
«È semplicemente sconvolgente, nessun arbitrato in base alla sharia dovrebbe essere accettato o fatto valere dallo Stato britannico », ha detto il direttore del Centro per la Coesione Sociale.
Tra i casi dibattuti di fronte alla corte coranica di Nuneaton c'è stata una disputa ereditaria che divideva cinque figli, tre femmine e due maschi. Il dottor Siddiqi è stato soddisfatto della soluzione: ripartizione tra i cinque.
I suoi giudici hanno assegnato ai maschi il doppio della cifra attribuita alle donne, perché così stabilirebbe la sharia. Ma anche il magistrato più alto in grado del regno, Lord Chief Justice Phillips, approva l'uso della sharia in materia finanziaria e matrimoniale. Il ragionamento è che è meglio permettere ai musulmani di decidere secondo la sharia, alla luce del sole, che in segreto.
La Gran Bretagna è stato anche il primo Paese occidentale a lanciare sul mercato gli sharia bond: obbligazioni che si adeguano alla legge islamica, contraria agli interessi.

fonte: Il Corriere della Sera

lunedì 15 settembre 2008

Se il governo si scorda dei Carabinieri

Abituati a «obbedir tacendo e tacendo morir», i carabinieri non fanno notizia. Le categorie “à la page”, quelle di cui si parla nei talk show e che gli editorialisti amano innalzare a metafora del Paese, sono altre.
Fatte da gente che scende in piazza a gridare con i cartelli al collo, schierata politicamente e ben inquadrata dal sindacato. In questi giorni, ad esempio, c’è un gran daffare per convincere l’opinione pubblica che il futuro della nazione è appeso alle sorti dei dipendenti Alitalia e dei precari della scuola. In realtà si tratta di due categorie incapaci di arrendersi all’evidenza: i primi non hanno capito che il loro prossimo datore di lavoro sarà un privato che ha tutto l’interesse a non fallire, e magari anche a realizzare qualche profitto ogni tanto.
I privilegi di un tempo non sono più giustificabili né sostenibili, ora che lo Stato - per fortuna - ha deciso di uscire dalla partita. I precari della scuola, dal canto loro, stentano a realizzare che gli insegnanti sono troppi rispetto agli alunni. E il loro numero non è affatto servito ad innalzare la qualità dell’educazione. Semmai, anzi, ha avuto l’effetto opposto: i confronti internazionali sui risultati del sistema scolastico collocano l’Italia sempre più in fondo alle classifiche, specie quando si misura il livello di preparazione nelle discipline scientifiche.
In compenso la politica del «todos caballeros», adottata da decenni nella pubblica istruzione, è stata efficacissima nel creare clientele e aspettative, che nel corso degli anni si sono trasformate in pretese. Basta vedere la reazione dei diretti interessati quando è stato prospettato un loro inserimento nel turismo: invece di accendere ceri al Padreterno per essere stati sottratti alla via crucis che attende i normali lavoratori in esubero - i quali un ricollocamento in un settore così solido lo sognano di notte - hanno promesso un autunno di mobilitazione al ministro Mariastella Gelmini. Ci sarebbe da preoccuparsi per gli alunni, se non fosse che l’assenza di certi professori dalle aule probabilmente non nuocerà in alcun modo alla loro educazione.
Silvio Berlusconi e i suoi ministri, insomma, fanno bene a tirare dritto: dire ai dipendenti della compagnia di bandiera che l’alternativa al piano Fenice è il fallimento, e che i tempi per trovare un accordo sono già finiti, vuol dire parlare finalmente di Alitalia in modo realista.
Allo stesso modo, pagare meno insegnanti, e pagarli meglio, premiando i più meritevoli tra loro, significa aver colto l’essenza del problema.
Piuttosto, gli uomini del governo farebbero bene a preoccuparsi - e molto seriamente - dei carabinieri e dell’intero comparto delle forze dell’ordine.I militari dell’Arma oggi appaiono lasciati a se stessi. Eppure, a differenza di quanto accade per gli insegnanti, di loro c’è sempre più bisogno. Secondo le denunce, nel 2007 in Italia sono stati commessi 2, 9 milioni di reati, il 5, 2% in più rispetto al 2006.
Aumentano i borseggi e gli scippi, e i furti dentro casa registrano un’impennata di poco inferiore al venti per cento. In gran parte è il risultato dell’arrivo incontrollato di immigrati da dentro e fuori l’Unione europea: ormai il 40% dei detenuti nelle carceri italiane proviene da altri Paesi. Comprensibilissimo, quindi, che gli elettori si sentano sempre più insicuri dinanzi al crimine.
Meno comprensibile è il trattamento che riceve dallo Stato chi è chiamato a mettere un argine alla marea di delinquenti nostrali e d’importazione.
Ieri sera il Cocer, l’organismo che rappresenta i carabinieri, ha incontrato Berlusconi. Un faccia a faccia preceduto da un comunicato dai toni durissimi. Gli uomini della Benemerita si lamentano, tra le altre cose, di essere stati «colpiti indiscriminatamente con provvedimenti legislativi che li hanno ridotti al di sotto della soglia della povertà».
Chi scrive simili cose non è un cobas, ma un agente in divisa, e se calca i toni è perché sa che solo così può sperare di ottenere una quota di quell’attenzione normalmente riservata alle altre categorie.
Un carabiniere che rischia la pelle pattugliando le strade guadagna - a seconda del grado - tra i 1. 200 e 1. 500 euro al mese. Il primo aumento per anzianità arriva dopo quindici anni. Se ne fanno una questione di dignità, dunque, hanno i loro motivi.
Ignorare quanto c’è di vero nelle loro richieste sarebbe un triplice errore politico. Primo: chi ha votato l’attuale maggioranza si aspetta molto dal governo sul fronte della sicurezza. Lesinare su questo settore apparirebbe incomprensibile a tanti elettori.
Secondo: l’Arma rappresenta, in ogni sondaggio, una delle istituzioni in cui gli italiani ripongono più fiducia. Senza dubbio più che nel governo e nel parlamento. Inimicarsi i carabinieri non sembra idea adatta a un cacciatore di consensi come Berlusconi.
Terzo, i valori di tanti uomini in divisa sono molto simili a quelli con cui Giulio Tremonti si è appena fregiato il petto: Dio, patria e famiglia.
Gettarli nelle braccia del primo Di Pietro che passa significherebbe fare del male a loro e a se stessi. Berlusconi, se ci sei batti un colpo.

fonte: Fausto Carioti - Libero

domenica 14 settembre 2008

11 settembre, On.Bertolini (PDL): Per l'Occidente sia un monito a non abbassare la guardia e a sostenere chi si batte per la libertà

L’Onorevole Isabella Bertolini, Componente del Direttivo del PDL alla Camera, ha dichiarato:

Riguardando, a sette anni di distanza, le scene terrificanti dell’attacco terroristico portato dall’Islam radicale nel cuore dell’Occidente, al World Trade Center, dove sono morte migliaia di persone innocenti, colpite in modo vile dal terrorismo suicida, proviamo sempre più amore e rispetto per il coraggio mostrato da tanti, poliziotti, pompieri, gente comune, che si sono sacrificati ed hanno rischiato la propria incolumità per salvare altri uomini.
La memoria ci riempie di dolore immutato per l’inutile scempio di vite spezzate, ma ci riempie anche d’orgoglio constatare che l’Occidente, o almeno una grande parte di esso, non si è lasciato infiacchire e piegare dalla violenza barbara di chi odia la sua modernità, la sua libertà, la sua democrazia, ed ha reagito guardando in faccia il proprio nemico.
La data dell’11 settembre 2001 rimarrà un pilastro della storia mondiale.
Verrà ricordata come il momento della svolta, quando tutto il mondo ha dovuto constatare la faccia pericolosa e devastante dell’Islam radicale e fondamentalista, che, con ogni mezzo, anche il più abietto, cerca di riscattare le sconfitte di centinaia di anni fa per riprendere una progressiva supremazia.
Davanti a questo disegno non si possono chiudere gli occhi, come molti fanno per motivi ideologici, culturali o per paura, cercando di minimizzare e di giustificare la dimensione degli attacchi terroristici.
Né si devono accettare le pressioni intolleranti e di censura da parte dell’Islam fondamentalista nei confronti della nostra cultura e della nostra civiltà.
È per questo che dobbiamo guardare con amicizia e sostenere quei musulmani che sono oppressi nei loro Paesi e che agognerebbero ad un Islam dialogante ed attento ai diritti umani.
Mentre dobbiamo essere irremovibili contro tutti gli atti di oppressione che l’Islam fondamentalista sta perpetrando in molti aree del mondo, contro i cristiani, ma anche contro gli stessi musulmani, e sui quali c’è purtroppo un colpevole e complice silenzio da parte di molti Paesi europei, attraversati da una grande crisi d’identità, spirituale e culturale.
L’attacco alle Torri gemelle ha colpito il nostro mondo e il suo impatto nella nostra vita si ripete quotidianamente.
Serva quindi da monito continuo, a noi democratici e liberali, per non abbassare la guardia di fronte al ritorno della barbarie e della violenza oscurantista e per avere il coraggio di sostenere chi si batte per la libertà.

sabato 6 settembre 2008

«Io, nel ghetto cristiano dove gli emiri vietano di suonare le campane»

La sua diocesi copre tutta la penisola arabica. I suoi fedeli parlano tagalog, indi, urdu, arabo, inglese e cingalese. Le sue parrocchie non hanno croci, né campanili: bisogna stare attenti a non «offendere» i vicini musulmani. Niente campane per annunciare la messa. Niente processioni per le strade. È vietato.
Si muove in questo contesto l’arcivescovo Paul Hinder, dal 2005 vicario apostolico per l'Arabia, pastore della comunità cattolica in terra d’islam: Emirati Arabi Uniti, Oman, Qatar, Bahrain, Yemen e infine Arabia Saudita. Cappuccino, 66 anni, svizzero, monsignor Hinder guida circa due milioni di cattolici di 90 diverse nazionalità. Vive ad Abu Dhabi. Il suo ufficio è «vicino ad una delle più grandi moschee del Paese».
In un momento in cui è ai massimi livelli l’allarme per la persecuzione dei cristiani nel mondo, il vescovo d’Arabia racconta al Giornale la «libertà condizionata» dei cattolici in questo angolo di Medio Oriente. Dove, nonostante divieti e discriminazioni, «la comunità cresce ed è vitale».
Eccellenza, dopo le violenze in India, il Vaticano ha parlato di «cristianofobia» diffusa.
«Molto spesso la “cristianofobia” parte da condizioni sociali, economiche e politiche concrete. In tali situazioni la religione può essere strumentalizzata, senza essere la vera ragione di un conflitto. Ci vuole sempre un capro espiatorio. Come in India».
E nel mondo islamico, dove vive?
«Qui non parlerei di una “cristianofobia” generalizzata, anche se accomunare una certa politica occidentale con i cristiani può creare danno a tanti come in Irak o in Pakistan. Per questo guardiamo con apprensione ad una possibile guerra contro l’Iran, che potrebbe avere gravi ripercussioni per la convivenza».
Nella penisola araba vi è persecuzione religiosa?
«Bisogna fare una distinzione tra libertà religiosa e di culto. In Bahrain, Qatar, negli Emirati i cristiani sono liberi di professare nei compound adibiti al culto, dove si svolgono tutte le attività parrocchiali. Non c'è però libertà religiosa, perché non puoi decidere quale credo seguire: un musulmano non potrà mai convertirsi. Si tratta di una libertà condizionata, ma la comunità cresce».
Nella democratica India si uccidono i cristiani e nell’islamica Arabia il loro numero sale. In India vi è un movente politico dietro la persecuzione, mentre qui i cristiani non ricoprono alcun ruolo pubblico né hanno potere economico. La comunità è costituita al 90^ da immigrati che lavorano nei cantieri dell’Arabia del grande sviluppo edilizio. Quest’anno abbiamo inaugurato la prima chiesa in Qatar. Un evento storico».
Ma in Arabia Saudita si viene arrestati per una Bibbia...
«Questo è l’unico Paese dove non esiste neppure la libertà di culto. I cattolici sono circa 800mila. Non si può diffondere o possedere materiale religioso. Il re Abdallah, però, ha concesso la preghiera in luoghi privati, purché non si rechi disturbo».
In che senso, scusi?
«Ad esempio non possiamo operare o accettare conversioni e ogni rapporto troppo personale con musulmani è visto come sospetto. Il problema è definire con precisione questo confine tra pubblico e privato. In passato erano frequenti le irruzioni della polizia religiosa nelle case dei cristiani. Ora il governo sta cercando di rassicurarci e il fenomeno è molto diminuito».
Proprio da Ryadh arrivano, però, segnali di dialogo
«Credo nella sincerità del re saudita: la sua visita al Papa, gli incontri promossi a Madrid e a La Mecca sono gesti importanti. Il problema è che l’approccio dell’islam è sempre quello di dialogare per farsi conoscere. Non vi è autocritica e per questo è difficile una riforma. I leader religiosi più illuminati purtroppo sono messi a tacere dai fanatici e costretti a vivere sotto protezione. Il cammino è ancora lungo».
fonte: Il Giornale, 31 agosto 2008

lunedì 1 settembre 2008

Islam, così i frati non aiutano il Vangelo: la carità non converte i musulmani

Un campeggio musulmano nel convento francescano di Sassoferrato forse non è che un piccolo episodio fra i tanti che testimonia la rinuncia della Chiesa a far vivere il Vangelo.
I Francescani vantano il loro spirito di carità (oggi si chiama «accoglienza», «dialogo») ma sanno benissimo che lo spirito di carità non converte i musulmani al cristianesimo e che fra poco il Vangelo morirà a causa della morte dei suoi «portatori».
Questa è la durissima verità cui devono riflettere oggi i Religiosi, francescani e non francescani, cui devono riflettere tutti i cristiani, sia i politici che i semplici sudditi, ma soprattutto deve riflettere la Chiesa: o ci si impegna a predicare il Vangelo oppure lo spirito di carità dei Francescani contribuirà a farlo sparire più presto.
Il cristianesimo è in grave crisi. Il cattolicesimo in particolare mostra ferite profonde, sia a livello di credenti, sia e ancor più nelle sue strutture portanti, quelle strutture che fin quasi dalle origini hanno permesso alla Chiesa di radicarsi in Europa e di farsi conoscere ed apprezzare in tutto il mondo.
Parlo, ovviamente, degli Ordini religiosi, dai Benedettini ai Francescani, ai Domenicani, ai Gesuiti, che vedono oggi i loro noviziati quasi del tutto deserti; parlo del clero diocesano che, non soltanto è sempre meno numeroso, ma è privo di mordente, ripiegato stancamente su parole logorate dall'uso e vuote di contenuto.
Parlo delle Suore, un tempo braccio forte delle attività della Chiesa, presenti in tutti i centri nevralgici della società, dalle scuole agli ospedali, in ogni Continente ed oggi costrette a trovare le adepte in India, nelle Filippine, in Africa per non chiudere i loro istituti. Le cifre sono impressionanti: nei quaranta anni del dopo Concilio i religiosi sono passati complessivamente da 329.799 a 214.903 con un calo del 34,83%. I frati minori (francescani appunto) erano nel 1965 27.009 e sono scesi nel 2005 a 15.794 con un calo del 41,52%. I Gesuiti erano, sempre nel 1965, 36.038 e sono diventati nel 2005 19.850.
Le religiose, che sono sempre state 4 volte di più dei religiosi (questo è un dato costante della storia della Chiesa) sono passate nello stesso periodo da 961.264 a 633.675 con un calo del 34,07% (le cifre sono tratte dall'articolo di A. Pardilla nella rivista Testimoni del dicembre 2007).
Da che cosa è provocata questa crisi? È troppo facile addebitarla ai costumi dell'Occidente, alla emancipazione delle donne, al consumismo e alla dissipazione della vita moderna.
I costumi non erano più morigerati ai tempi delle lotte iconoclastiche quando tuttavia i frati non esitavano ad impegnarsi in prima persona contro l'Imperatore per difendere il diritto alle immagini. La moralità non era migliore nei primi secoli dopo il Mille quando per difendere il Vangelo sono scesi in campo San Bernardo, San Francesco, San Domenico.
Per quanto allora fossero spesso gli stessi Papi occasione di scandalo, essi però credevano profondamente nella forza assoluta di Gesù, nella salvezza proveniente dal Vangelo, nel dovere della Chiesa di salvaguardare la novità incomparabile del suo messaggio.
La fragilità degli uomini era una cosa, la fede un'altra. Dunque, oggi, la Chiesa deve guardare prima di tutto a se stessa e chiedersi quali siano i motivi veri del distacco dei credenti, un distacco che è incominciato con il Concilio Vaticano II, quindi proprio nel momento in cui si è deciso di dare impulso al dialogo con le altre confessioni religiose.
Deve chiedersi perciò se questi motivi non si trovino principalmente nel suo aver rinunciato a predicare la specificità del Vangelo, la rottura compiuta da Gesù con l'Antico Testamento, con lo spirito dell'Antico Testamento. L'equivoco terribile del nostro tempo - un equivoco che ha pervaso tutti gli aspetti della cultura e della vita sociale - è che bisogna essere uguali per non farsi la guerra.
Questo significa che non crediamo affatto al messaggio d'amore di Gesù, visto che invece è proprio mantenendo le differenze che dimostriamo di saperci amare. D'altra parte certamente non sono i conciliaboli teologici o liturgici a poterci avvicinare ai credenti nell'Antico Testamento e quindi nel Corano.
La cultura discesa da Roma e dal Vangelo è quella che ha informato di sé la lingua, il diritto, l'architettura, la scultura, la pittura, la musica delle nazioni d'Europa ed è questo che conta nella vita dei popoli: lo spirito con il quale hanno incarnato la propria religione. Il Corano vieta le rappresentazioni, vieta le immagini.
Questo significa che non appena i musulmani saranno spiritualmente la maggioranza (in Italia manca poco perché non è tanto questione di numero quanto questione di forza propulsiva) quasi tutta la nostra cultura dovrà essere cancellata. I francescani odiano forse l'Italia?
fonte: il Giornale

venerdì 29 agosto 2008

Allam: Occidente schiavo dell'islamicamente corretto

Oggi il mondo occidentale ha paura di guardare in faccia la realtà e preferisce occultare la verità per non scontentare i mussulmani e provocare in loro reazioni violente.
Magdi Cristiano Allam, dal Meeting di Comunione e liberazione di Rimini, non risparmia critiche alla religione islamica, che lui stesso ha rinnegato "dopo un lungo percorso di conversione" e di "spiritualità interiore" che si è concluso il 22 marzo scorso, quando la notte pasquale il Papa Benedetto XVI gli ha somministrato il battesimo, la comunione e la cresima.
Uno degli episodi che ha portato Allam a pensare alla conversione è stato il trattamento ricevuto dal pontefice in occasione del suo criticato discorso all'Università di Ratisbona il 12 settembre 2006, durante il quale ha affermato che "l'Islam è una religione che si è diffusa tramite la spada".
Neanche gli stessi storici mussulmani lo smentiscono: nel Corano ci sono versetti che incitano all'odio, alla violenza e alla morte. E' per questo motivo che il giornalista Magdi Cristiano Allam ha deciso di convertirsi e di ricevere il battesimo lo scorso marzo.
"Il cristianesimo - dice Allam nel suo intervento - è la religione del Dio che si fa uomo; l'islamismo è la religione del Dio che si fa testo e si incarta nel Corano. Il Corano è considerato un'opera increata e, così come non è possibile criticare Dio, non è possibile accostarsi al Corano con la ragione".
"Diversi versetti del Corano - aggiunge - sono legittimanti di una ideologia di odio, di violenza e di morte. Anche nella Sharia (le norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica, ndr.) è attestata la realtà di un uomo che è stato guerriero, che ha combattuto e ucciso". E' narrata la storia di "Maometto" che "è stato personalmente protagonista di efferati crimini, come la strage e la decapitazione di circa 700 ebrei a Medina. Fatti che i mussulmani non smentiscono".
Il vicedirettore del Corriere della Sera prende le difese di papa Ratzinger. "E' una verità storica - spiega - un fatto attestato dagli stessi storici mussulmani. Fu per me un vero trauma constatare che il fatto che l'avesse pronunciata il papa" quella frase "provocò una generale e brutale condanna da parte del mondo mussulmano con la richiesta di scuse, la convocazione di ambasciatori, la condanna a morte da parte di Bin Laden e altri estremisti".
Inoltre "l'isolamento dei giorni successivi fu ancora più marcato dalle tante critiche sollevate in Occidente dai mezzi di comunicazione e da esponenti di chiese cristiane e da alcuni alti prelati della chiesa cattolica che sostennero che quel discorso era inopportuno".
"Oggi - continua Magdi Cristiano Allam - l'Occidente ha paura di guardare in faccia la realtà, non vuole ritenere che c'è una verità e preferisce occultarla e nasconderla" nel caso in cui dovesse "scatenare reazioni violente" da parte dei mussulmani.
Oggi l'Occidente ha la "malattia ideologica del relativismo che privandoci dell'uso della nostra ragione, non vuole entrare nel merito e ci priva di parametri valutativi critici".
Un'altra malattia, per il giornalista convertito, è "la malattia ideologica del 'politicamente corretto' anzi del 'islamicamente corretto' che ci porta a ritenere che non si deve dire o fare alcunché che possa urtare la suscettibilità dei mussulmani. Un'altra malattia p il buonismo che è l'esatto contrario del 'bene comune' e della sintesi tra i diritti e i doveri".

giovedì 28 agosto 2008

Anche il Conservatore in Azione aderisce all'appello di Liberal per i cristiani perseguitati

Adesioni bipartisan alla manifestazione organizzata dalla rivista 'Liberal' di fronte a Montecitorio, per il prossimo 10 settembre, in segno di solidarietà ai cristiani perseguitati in India.
Tra coloro che hanno dato il loro sostegno all'iniziativa, c'è anche il Cardinale Joseph Zen Ze-kiun, arcivescovo di Hong Kong, tradizionalmente critico della Chiesa ufficiale cinese.
A quanto riferito dalla rivista diretta da Ferdinando Adornato, hanno dato la loro adesione Pier Ferdinando Casini per l'Udc, Romano Prodi, Oscar Luigi Scalfaro, Francesco Rutelli, Paola Binetti ed Enrico Gasbarra per il Pd, Clemente Mastella, e, per la maggioranza, Fabrizio Cicchitto, Maurizio Gasparri, Isabella Bertolini, Gianfranco Rotondi, Roberto Formigoni, Gabriella Carlucci, Margherita Boniver, Lamberto Dini.

mercoledì 27 agosto 2008

Maldive, la costituzione segue la sharia: Niente cittadinanza ai non musulmani

Una crescente volontà di salvaguardia dell'identità «Oggi il sole è calato sui vecchi atolli e un nuovo sole spunta all'orizzonte». Quando la politica si fa sulla sabbia di cipria di 1.192 isole coralline, la retorica del potere è ancora più ispirata. Il discorso lo pronuncia Mohamed Nasheed, ministro dell'Informazione, e il suo «sole» è la nuova Costituzione che avrebbe dovuto introdurre la democrazia alle Maldive.
«Un non musulmano non può diventare un nostro cittadino» recita invece il punto (d) dell'articolo 9, aggiunto ex novo rispetto alla vecchia Carta del 1998.
Un principio che non solo impedirà di ottenere la cittadinanza ai non musulmani ma ne provocherà la perdita anche da parte di chi si coverte o è figlio di un non islamico. Le persone colpite dalla revoca potranno restare nel Paese, ma solo per lavorare, e perderanno diritti fondamentali come quello di parola e di spostamento.
Sugli atolli, dove la popolazione è al 100% musulmana sunnita la riforma che vieta «ogni legge contraria ai principi dell'Islam » è passata senza colpo ferire.
«Qui le donne locali si vestono sempre più di nero e indossano il burqa — testimonia il console onorario italiano a Malé Giorgia Marazzi —. Impossibile immaginare adesso una protesta sul tema della libertà religiosa». Nessuna levata di scudi, però, neppure da parte dell'opposizione, troppo preoccupata di urtare la sensibilità degli elettori in vista delle prime elezioni multipartitiche in programma a ottobre.
fonte: Il Corriere della Sera

Con il velo islamico si può fare tutto

Diego sarà punito. Severamente. Forse perderà il posto di lavoro. La sua colpa? Aver fatto rispettare una legge dello Stato, chiedendo a una musulmana velata fino agli occhi di scoprirsi il viso in un luogo pubblico. Un «crimine» che può costar caro nell’Italia politicamente corretta, dove la «contaminazione» è un valore in sé, come ci insegna la Festa del Pd.
Diego fa il sorvegliante al museo Ca’ Rezzonico di Venezia e, per dirla tutta, magari non si chiama neppure così: almeno la gogna i suoi dirigenti gliel’hanno per il momento risparmiata e quindi il suo nome non è stato divulgato. Per il resto, come si dice, non si sono fatti mancare nulla: «Un fatto sgradevole, discriminatorio e stupido, non condiviso né da me personalmente né dal resto della direzione dei Musei civici», ha tuonato dalle colonne del Gazzettino il conservatore di Ca’ Rezzonico, Filippo Pedrocco. «Prenderemo i provvedimenti necessari nei confronti del guardiasala».
E così Diego la pagherà. Lui pensava forse di fare il suo dovere. Anzi considerava l’intervento di routine, visto che c’è una legge del 1975 che proibisce di girare a volto coperto: divieto confermato anche dal regolamento dei Musei civici veneziani, che lui è pagato per far rispettare. E lo aveva fatto altre volte. La cosa più divertente è che ad ammetterlo è lo stesso Pedrocco, sì quello che lo vuole punire. «Per questioni di sicurezza», ha spensieratamente dichiarato alla Nuova Venezia, «persone con il volto coperto non hanno accesso alle sale espositive. Succede per esempio a Carnevale, quando molti entrano mascherati. In quel caso chiediamo gentilmente ai visitatori di scoprirsi il volto».
Perfetto, è proprio quello che ha fatto il nostro Diego con la donna araba che indossava il niqab, il velo che lascia scoperti solo gli occhi: quindi, dov’è il problema? Ha fatto bene, no? Errore. Anzi, «grave errore». «Sta al buon senso del personale capire in quali casi sia richiesto far vedere il viso», sentenzia lo spericolato Pedrocco. «In questo caso la signora aveva tutto il diritto di visitare il museo e mi scuso per l’accaduto». Fantastico, no?
Ricapitoliamo. Se, in Italia, un italiano pretende di visitare un museo con il volto mascherato, lo si ferma. Giustamente. Lo stesso avviene, poniamo, se un ragazzo entra in un bar o in un negozio con il casco che gli copre il volto. Questioni di sicurezza, chi non lo comprende: sotto quel casco può celarsi un rapinatore; dietro quella maschera un pericoloso terrorista. E comunque, c’è una legge da far rispettare, ci sono i regolamenti. Se però a violare l’una e gli altri è un’islamica, cambia tutto. L’ipotesi che sia una persona poco raccomandabile non va neppure presa in considerazione e chi si fa sfiorare dal pensiero va redarguito, rimesso al suo posto. Se possibile cacciato.
Perché? Ma è ovvio, perché una musulmana ha diritto di veder rispettate le sue tradizioni che le impongono di non mostrare il viso. Un diritto che, per qualcuno, è più forte della legge. E che le dà facoltà di accedere a Ca’ Rezzonico: «per giunta», come sottolinea opportunamente l’agenzia di stampa Apcom, «dopo che la donna, con il marito e la figlia, aveva pagato il prezzo del biglietto d’ingresso, di 6,5 euro». Per giunta. Avevano perfino pagato e tu, Diego, sei andato a rompere le scatole. Certo, verrai punito, ma «intanto», piange ancora l’Apcom, «né la donna né la sua famiglia hanno potuto godersi la visita che avevano pagato».
E a te, Diego, magari passerà per la testa che anche le maschere sono una tradizione. Ma è una tradizione nostra, italiana, e quindi non conta. Ti frullerà l’idea che se a tua sorella o a tua figlia venisse voglia di visitare il Paese da cui proviene quella signora, le obbligherebbero a indossare mortificanti copricapi e ampie vesti lunghe fino ai piedi non appena sbarcate dall’aereo, fregandosene allegramente sia dei loro usi e costumi sia del caldo impossibile.
Penserai che non sia giusto. Ecco, limitati a pensarlo. Non dire una parola: c’è il rischio che, oltre a perdere il posto di lavoro, ti guadagni dai progressisti in servizio permanente effettivo anche il marchio di razzista.
fonte: Il Giornale

lunedì 25 agosto 2008

Orissa: suora bruciata viva da estremisti indù; un'altra stuprata

Bubaneshwar - Una suora cattolica è stata bruciata viva da gruppi di fondamentalisti indù nel distretto di Bargarh (Orissa), che hanno assalito l'orfanotrofio di cui era responsabile. Lo ha confermato il sovrintendente della polizia Ashok Biswall . Un sacerdote che era presente nell'orfanotrofio è rimasto gravemente ferito ed è ora all'ospedale con profonde ustioni. Un'altra suora, del Centro sociale di Bubaneshwar è stata stuprata da gruppi di estremisti indù prima di dar fuoco a tutto l'edificio. La lista delle violenze contro i cristiani si allunga. Fonti di AsiaNews affermano che una sacerdote è stato ferito; altri due sacerdoti sono stati rapiti.
Da due giorni lo stato dell'Orissa (nord- est dell'India) è scosso da violenze seguite all'uccisione di un leader radicale indù, Swami Laxanananda Saraswati. Chiese, centri sociali, centri pastorali, conventi e orfanotrofi sono stati assaliti ieri e oggi al grido di "Uccidete i cristiani e distruggete le loro istituzioni".
La tensione in tutto lo Stato è altissima. Il Vhp (Vishwa Hindu Parishad) ha lanciato per oggi e domani delle dimostrazioni. Già oggi gruppi di fanatici indù del Vhp e della Sangh Parivar hanno bloccato strade e villaggi, lanciando i propri gruppi alla razzia e alla violenza.
Secondo informazioni dirette, il Centro sociale dell’arcidiocesi è stato assalito e bruciato. Prima della distruzione, gli incendiari hanno stuprato sr. Meena, una suora che lavorava nel Centro. Anche il Centro pastorale, che era scampato alle distruzioni del dicembre scorso, è totalmente distrutto. P. Thomas, il responsabile è all’ospedale con gravissime ferite alla testa.
Il p. Ajay Singh ha detto ad AsiaNews che vi sono notizie di una suora arsa viva in un orfanotrofio nel distretto di Bargarh, dove era responsabile
Anche le suore di Madre Teresa sono state attaccate da un gruppo di militanti indù che hanno lanciato pietre su di loro, ferendone una in modo grave.
Tutte le istituzioni cristiane sono in pericolo perché folle di radicali indù girano per le vie, rompono le porte e le finestre e talvolta assaltano le case cristiane. Diversi sacerdoti e suore sono in fuga.
Militanti indù hanno anche assalito con pietre l’arcivescovado di Bubaneshwar, ma non hanno osato entrare data la presenza della polizia.
La chiesa e la casa parrocchiale di Phulbani sono state attaccate e bruciate. Tutti i sacerdoti hanno dovuto fuggire rifugiandosi nelle case dei fedeli.
L’ostello dei giovani che studiano a Phulbani è stato bruciato. Alcune missionarie della Carità radunate per un corso di studi sanitari a Brahamanigoan, sono state bloccate per ore nel villaggio. Le suore hanno lasciato il convento e hanno trovato rifugio in alcune scuole.
fonte: Asianews

Islam, Bertolini (PDL): Da monsignor Tauran autorevole contributo su problema moschee in Italia

"Le parole di monsignor Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo religioso, sull'essenzialita' della reciprocita' dei luoghi di culto tanto in Europa per le confessioni diverse dal Cristianesimo, quanto nei paesi a maggioranza musulmana per chi non e' islamico, non puo' non essere colto come un messaggio autorevole nei confronti della questione moschee anche nel nostro paese".
Lo afferma l'Onorevole Isabella Bertolini, componente del direttivo del Pdl alla Camera. "L'eccessiva proliferazione di moschee in Italia, senza che sia data la possibilita' a chi non e' musulmano di erigere propri luoghi di culto in paesi islamici, non puo' certamente essere accettata.
Il mancato riconoscimento reciproco del diritto alla liberta' religiosa non e' il solo punto dolente. Il numero troppo elevato di moschee in Italia sta portando un serio problema di sicurezza. I luoghi di culto islamici, come ci dice l'ultimo rapporto dei servizi segreti, sono troppo spesso terreno fertile per i reclutatori della guerra contro l'Occidente. I recenti arresti a Bologna di una cellula jihadista la dicono lunga su un pericolo che non puo' essere in alcun modo sottovalutato.
Molte amministrazioni comunali stanno consentendo, con troppa superficialita', la costruzione di moschee sui propri territori, che potrebbero poi essere gestite da associazioni musulmane radicali, contigue alle posizioni del fondamentalismo internazionale piu' acceso. Si rischia di accendere una polveriera. Non possiamo permettere, a chi non riconosce i nostri valori, di trasformare alcune aree del paese in aree dove i nostri diritti non valgono nulla".

Mamme in Cina

Mentre le Olimpiadi mostrano al mondo una Cina moderna, telegenica, spettacolare, una madre adottiva riflette sul posto dove è nata la sua bimba cinese, che tre anni fa venne lasciata davanti alla porta di un orfanotrofio con il cordone ombelicale ancora attaccato.
Diane Clehane, scrittrice e giornalista che vive a Manhattan, ha raccontato nell’edizione americana di Vanity Fair la storia di sua figlia Madeline Jing-Mei (“a little lucky girl”, le sorridono gli estranei che la incontrano al supermercato con la mamma) e dei sessantamila bambini cinesi, novanta per cento femmine, che dal 1991 sono stati adottati da famiglie americane. Si adotta in Cina più che in ogni altro posto del mondo.
Una gioia pazzesca, “ma è impossibile ignorare il fatto che io ho avuto una figlia perché qualcun altro è stato costretto ad abbandonarla”. Perché “fino a quando non sono entrata nel processo di adozione, non avevo la percezione reale del costo umano” della politica del figlio unico, della discriminazione delle femmine, di tutte le ragazzine che vivono negli orfanotrofi, di quelle mai nate, di quelle non registrate, delle neonate buttate all’angolo di una strada.
Milioni e milioni di bambine scomparse (e bellissime, bravissime atlete olimpiche che lanciano il loro messaggio di forza e speranza, poi però una bambina di sette anni esclusa dai canti ufficiali per decisione governativa: troppo brutta).
Le madri adottive sanno che dovranno raccontare alle figlie la loro storia, dovranno spiegare quale scellerata azione politica le ha condotte, per fortuna, tra le loro braccia: molte ritagliano tutti gli articoli sulla politica del figlio unico (che non sarà abbandonata almeno fino al 2010) e sugli abbandoni delle femmine. “Voglio aiutare mia figlia a essere orgogliosa del suo paese, ma penso che lei non arrivi da questa Cina moderna e televisiva. Lei appartiene a una Cina che quasi tutto il mondo non vedrà mai”, ha scritto Diane Clehane.
Qui non sono tutte come Angelina Jolie. Le mamme (e non sono tutte come Angelina Jolie, non adottano per motivi umanitari, ma per avere un figlio) lo sanno. Cindy Hsu fa la reporter televisiva, vive a New York, ha adottato una bimba che adesso ha quattro anni (le autorità cinesi, tra l’altro, tendono a impedire qualunque contatto con i genitori naturali), e ha una nonna cinese: “Le madri cinesi non sentono lo stesso nostro senso di perdita: mia nonna mi disse molto tempo fa che non capiva la sofferenza delle americane per gli aborti. E’ un altro stato mentale. In certe famiglie, se c’è qualcuno che non ha figli, vengono a prendere uno dei tuoi bambini. C’è qualcosa che non va, là”. Qualcosa che non va e che un po’ di belletto olimpionico non nasconde.
“Tutti quelli che erano con me a Piazza Tiananmen scrivono da Pechino dicono la stessa cosa – spiega Zirinsky, madre adottiva che ha lavorato molti anni in Cina – c’è questa facciata scintillante che disperatamente cerca l’approvazione del mondo, ma passi sei blocchi di case ed ecco la Cina che abbiamo conosciuto. E’ davvero difficile gettarsi alle spalle le cose tremende che hanno messo radici in quella società”. Bambine gettate via, bambine che non sono niente, bambine che stanno scomparendo. Le madri che mettono a letto le loro “little lucky girl” e guardano tutto questo estivo scintillio televisivo, pieno di magnifici corpi, sorrisi, medaglie e modernità, hanno già visto l’altra faccia della Cina, e non l’applaudiranno mai.
fonte: Il Foglio

domenica 24 agosto 2008

Ragazze cristiane rapite, convertite e sposate a musulmani: difficile il ritorno per una di loro

Saba e Anila Younas, cristiane, sono state rapite e sposate lo scorso 26 giugno da un gruppo di musulmani e costrette a convertirsi all’islam. Un referto medico stabilisce che la maggiore ha 16 anni ed è in grado di contrarre matrimonio. Il legale annuncia battaglia: arriveremo alla Corte Suprema.
Lahore (AsiaNews) – Si fanno più flebili le speranze di un ritorno a casa per le due ragazze cristiane rapite da un gruppo di musulmani lo scorso 26 giugno nel villaggio di Chowk Munda, nella provincia del Punjab. Secondo l’avvocato della difesa, la situazione è più complicata per la maggiore delle due sorelle, Saba Younas, costretta all’indomani del rapimento a sposare un giovane musulmano e a convertirsi all’islam.
Lo scorso 6 agosto il giudice Malak Saeed Ejaz, dell’Alta Corte di Lahore, ha disposto una perizia medica sulla ragazza in base alla quale sarebbe emerso che “l’età biologica” è di 16 anni (o 17) e non 13 come testimonia il certificato di nascita rilasciato dalla parrocchia cattolica di appartenenza. “Dopo il responso del referto medico – afferma Rashid Rehman, legale della famiglia – le possibilità che Saba torni dai genitori si riducono”, poiché a 16 anni le ragazze hanno raggiunto la "pubertà" ed è possibile “contrarre regolare matrimonio”. In fase di dibattimento, fra l’altro, la ragazza avrebbe confermato di “avere 17 anni”, di essersi “convertita all’islam” e aver contratto matrimonio “volontariamente”.
Se le speranze per la sorella maggiore sono pressoché nulle, continua invece la battaglia per riportare a casa la minore delle due, Anila di 10 anni; e un eventuale ritorno di Anila potrebbe convincere anche Saba a cambiare idea, trovandosi da sola in una famiglia che non le appartiene. Secondo Khalid Raheel, zio delle sorelle, dietro la decisione di Saba di testimoniare a favore dei rapitori in tribunale vi sarebbero “pressioni e minacce” e ribadisce di avere in mano documenti che “comprovano il fatto che ha solo 13 anni”.
Il legale della famiglia annuncia infine che è terminata la fase del dibattimento in aula; la sentenza è attesa per martedì 9 settembre. Fino a quel momento le due sorelle rimarranno nel centro di accoglienza per sole donne nel quale sono state trasferite ad inizio agosto, come stabilito dal giudice. “Se la sentenza non sarà positiva – annuncia Rashid Rehman – faremo ricorso alla Corte Suprema del Pakistan”.

Telecom Italia boicotta Israele?

La Telecom ha deciso di cancellare Israele dalle carte geografiche?
La compagnia telefonica vuole forse emulare gli Stati canaglia che vogliono distruggerla in un Olocausto nucleare o i terroristi di Hamas ed Hezbollah che ne vogliono fiaccare la resistenza con gli attentati suicidi? E’ un vero scandalo.
Nell’offerta ‘Nuova Welcome Home’, che fa sconti per telefonare in tutti gli Stati del mondo, Telecom cita infatti tutti i Paesi tranne lo Stato ebraico, mentre è presente la Palestina. Se una persona vuole sapere la tariffa per chiamare Tel Aviv o Gerusalemme? Per Telecom Israele non esiste, si devono vedere le tariffe alla voce Palestina.
Solo pochi mesi fa, durante il Governo Prodi, il Ministero degli Interni aveva cancellato Israele dalla mappe dei palmari della Polizia di Stato, che solo grazie alle nostre prese di posizione fu immediatamente ripristinato, oggi la Telecom ricade in questo pericoloso atto.
Per quanto mi riguarda presenterò un’interrogazione al Governo per capire le motivazioni di questo gravissimo fatto nei confronti dell’unica democrazia del Medio Oriente.
On. Isabella Bertolini

sabato 23 agosto 2008

Sgominata cellula jihadista, Leoni: Moratoria di due anni su costruzione nuove moschee in Emilia Romagna

Prendendo spunto dalla notizia che sabato 9 agosto 2008 “è stata sgominata, a Bologna, una cellula jihadista che reclutava islamici da trasformare in kamikaze”, il Consigliere regionale Andrea Leoni del PDL ha rivolto un’interrogazione alla Giunta regionale per sapere se non ritenga necessario vigilare sulla legittimità delle attività svolte all’interno delle moschee presenti sul territorio dell’Emilia-Romagna, mettendo in atto azioni specifiche, anche di concerto con il Governo nazionale e le Amministrazioni locali, per garantire un controllo capillare su questi centri islamici, anche dal punto di vista numerico.
Andrea Leoni, a questo proposito, ricorda che dai dati emersi dalla 58^ relazione dei servizi segreti italiani si evince che l’insegnamento religioso praticato all’interno delle moschee e delle scuole coraniche è oggetto di specifiche “analisi, in relazione alla prevenzione delle zone grigie dove i reclutatori jihadisti godono di libertà di manovra, specialmente nella reislamizzazione in senso estremista di elementi naturalizzati”.
Il Consigliere sottolinea inoltre che, nel recente passato, diversi centri dell’Emilia-Romagna, come Carpi (Modena), Reggio Emilia e Bologna, sarebbero stati al centro di indagini riguardanti attività gestite da extracomunitari legati a movimenti radicali islamici ed a presunti finanziamenti destinati alla lotta integralista ed alle moschee.“Questi ed altri episodi - scrive Leoni – confermerebbero che gli allarmi lanciati a più riprese da numerosi esperti sulla penetrazione fondamentalista islamica in Italia e nella nostra regione sarebbero più che mai fondati”.
Considerando infine che l’Emilia-Romagna risulterebbe essere la regione con un maggior numero di moschee e che la costruzione di questi centri “procede a ritmo vertiginoso”, come ad esempio “a Sassuolo (Modena) e a Cesena (Forlì-Cesena), senza che gli amministratori locali siano minimamente interessati a quanto accade anche solo a pochi chilometri di distanza dai loro comuni”.
Il Consigliere regionale del PDL chiede alla Giunta come intenda evitare che moschee e scuole coraniche presenti in Emilia-Romagna si trasformino “in zone franche per estremisti”, se, dagli elementi di conoscenza in suo possesso, ritenga che la nostra regione, dove è già stata confermata la presenza di organizzazioni collegate all’integralismo islamico, sia potenzialmente ‘a rischio’ e se non ritenga doveroso disporre una moratoria di almeno due anni per la costruzione di nuove moschee in Emilia-Romagna, alla luce dei continui episodi di cronaca legati ad esponenti del terrorismo islamico presenti nel territorio regionale e visto che i centri culturali islamici e le moschee sono i luoghi dove operano i reclutatori di organizzazioni estremiste.

giovedì 13 marzo 2008

Ma non si era detto nessun condannato sarà candidato alle elezioni politiche del 2008?

In lizza alle prossime elezioni ci sono così condannati per reati di varia natura.
Da Massimo Maria Berruti, candidato dal Pdl alla Camera in Lombardia, che ha avuto 8 mesi definitivi per favoreggiamento nel processo per le tangenti alla Guardia di Finanza, ad Enzo Carra, candidato del Pd, in quota teodem, nel collegio Sicilia 1, condannato in via definitiva a 1 anno e 4 mesi per false dichiarazioni nel processo per le tangenti Enimont.
Condanne definitive hanno avuto anche i massimi dirigenti della Lega Nord. Umberto Bossi 8 mesi al processo Enimont e, sia pure solo ad una multa, per vilipendio del tricolore.
Condanna definitiva anche per Roberto Maroni: a 4 anni e 20 giorni per resistenza a pubblico ufficiale durante la perquisizione nella sede di via Bellerio a Milano. Condannato in via definitiva, per fabbricazione, detenzione e porto di esplosivi e altri reati collegati è stato Daniele Farina (Prc) candidato alla Camera nella lista della Sinistra Arcobaleno nel collegio Lombardia 1. Gianpiero Cantoni, ricandidato al Senato in Lombardia dal Pdl, ha patteggiato pene per circa 2 anni per corruzione e bancarotta.
Antonio Del Pennino, ricandidato al Senato dal Pdl in Lombardia ha patteggiato 2 anni e 20 giorni per l'affaire Enimont e 1 anno e 8 mesi per quello della metropolitana milanese.
Gianni De Michelis, che guida la lista per la Camera del Partito socialista - Boselli in Sicilia, ha patteggiato 1 anno e 6 mesi per le tangenti autostradali in Veneto e 6 mesi per la vicenda Enimont. Sempre legate al colosso petrolchimico le vicende che hanno provocato una condanna definitiva a 6 mesi e 20 giorni per Giorgio La Malfa, presente nelle liste del Pdl nelle Marche.
Marcello Dell'Utri, ricandidato dal Pdl in Lombardia per il Senato, ha una condanna definitiva a 2 anni e 3 mesi per le false fatturazioni Publitalia e ha patteggiato 6 mesi per un altro filone della vicenda.
Cinque anni di carcere in via definitiva sono stati comminati a Marcello De Angelis, esponente del gruppo neofascista Terza posizione, per banda armata e associazione sovversiva, candidato alla Camera dal Pdl in Abruzzo.
Per reati legati alle violenze politiche ha avuto condanne definitive l'esponente di An Domenico Nania candidato dal Pdl al Senato in Sicilia.
In lista per la Camera, nel collegio Veneto 2 per la Sinistra Arcobaleno, c'é anche Francesco Caruso, l'esponente napoletano dei No Global che di accuse per reati legati alla violenza politica ne ha molteplici. Non solo i soli. Ed a voler elencare anche i condannati in primo grado o coloro che sono in attesa di giudizio, la lista si allungherebbe di molto.
fonte: Ansa

mercoledì 20 febbraio 2008

Fini: ragioniamo sull’opportunità di non candidare chi ha pendenze con la giustizia

“Scegliamo i nomi con rigore”
Dopo un'ora trascorsa a ragionare sui temi del­la sicurezza e della giu­stizia, durante la quale il presidente di An, Gianfranco Fini, ha usato espressio­ni come «giro di vite» e «tolleranza zero» («e non mi vergogno di usar­le»), era inevitabile chiedergli se non c'è contraddizione nell'invocare rigore e fermezza quando, nel Popo­lo della Libertà, stanno per entrare candidati sotto indagine o condan­nati, anche in via definitiva. «I diritti civili, e cioè la facoltà dì votare ed es­sere votati, li regolano i codici. Mi rendo conto che il politico deve esse­re al di sopra di ogni sospetto, e vale per Giulio Cesare e per la moglie di Giulio Cesare. Ma bisogna fare at­tenzione, perché spesso i reati contestati sono di piccola portata o addi­rittura reati di opinione...».
Nel Pdl saranno in lista indagati o con­dannati per delitti di altra natura.
«Credo che se uno è indagato o, a maggior ragione, condannato per re­ati particolarmente odiosi, come la corruzione, o che abbiano a che fare con l'associazione mafiosa, opportu­nità vorrebbe che nella composizione delle liste ci fosse più rigore e più scrupolo. Parlo anche solo di opportu­nità: in attesa di sentenza definitiva, si può anche saltare un giro».
Propone di rivedere le liste?
«Dico semplicemente che possiamo ragionare insieme se metterli in li­sta oppure no. Credo di poter chie­dere rigore perché, in venticinque an­ni di Parlamento e in venti di leader­ship nel mio partito, i magistrati che conosco li ho conosciuti in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudizia­rio». Questa è la conclusione. Si era partiti dalla proposta di castrazione chimica dei pedofili.
Un po'truculenta, no?
«Per niente. Il pedofilo è un malato che necessita di interventi terapeu­tici. So che il termine castrazione è respingente, ma si tratta di una cu­ra a cui sottoporre chi la accettasse. Non penso che l'inasprimento delle pene, proposto da altri, sia utile per bloccare chi delinque obbedendo a una pulsione, a una libido. E quando il pedofilo esce dal carcere, quattro o cinque anni dopo, non è ancorata­le? Senza contare che per i detenuti esistono ancora troppi benefici».
Troppi? Li volete ridurre?
«Per esempio quelli previsti dalla leg­ge Gozzini (che accorcia i tempi di de­tenzione). E' una legge che va rivista in senso restrittivo».
Per tutti?
«Non sono un giurista. Si vedrà nel dettaglio. Ma i benefici vanno tolti, per esempio, ai plurirecidivi, a chi non dà segni di ravvedimento, a chi ha com­messo reati particolarmente gravi. Chi viene condannato a dieci anni, si faccia dieci anni».
Le carceri scoppiano. I carcerati vivono condizioni disumane.
«Sì, ma è un'assurdità fare l'indulto perché mancano carceri. Si costrui­scano carceri nuove. Si continua a pre­stare attenzione ai diritti dei colpevoli e non a quelli delle vittime».
Le carceri non si costruiscono in due giorni.
«D'accordo, ma la strada è un'altra. Ri­tengo che le pene non debbano essere per forza detentive. Tanti possiamo mandarli a lavorare, i condannati per piccoli reati puliscano le strade, i giardi­ni pubblici. Insomma, a me preme che ci si ficchi in testa una cosa: la respon­sabilità penale è personale. Chi sbaglia paghi, senza che si tirino in ballo gli aspetti sociologici, tanto cari alla sini­stra, su dove uno è cresciuto e che sfor­tuna ha avuto...».
Rutelli non ha torto quando propone di levare la patria potestà ai genitori che mandano i bambini all'accattonaggio o alla delinquenza.
«Sono cose che diciamo anche noi, da anni. Ma piuttosto la sinistra dovrebbe avere il coraggio di riconoscere che esi­stono gruppi etnici i cui costumi rendono per la gran parte impossibile l’integrazione».
La sinistra, a partire da Veltroni, sulla sicurezza non sembra tanto lassista.
«Adesso ci sono arrivati. Finalmente hanno capito che la sicurezza è un’esigenza sentita soprattutto nelle classi più economicamente disagiate. La criminalità diffusa colpisce specialmente loro. Però rimane distanza fra quello che si dice e quello che si fa. Il pacchetto sicurezza si è rivelato più un pacco che un pacchetto».
A Roma sono state rase al suolo le baraccopoli. Faceva male vedere vecchi e bambini in fila sotto la pioggia.
«Fa molto male. Per questo dobbiamo essere implacabili nella gestione del­l'immigrazione e nel rispedire ai paesi d'origine i comunitari, come i romeni, che vengono qui senza lavoro, e vivono di criminalità o di espedienti».
Però non pare che ci siano proposte con­crete, ma solo enunciazione di propositi.
«Noi, a differenza di Veltroni, di que­sti temi ci occupiamo da sempre. Non abbiamo bisogno di proclami. Io sono felice di aver fatto leggi come quella sull'immigrazione, con Bossi, o sulle droghe, con Giovanardi. Io sulle dro­ghe sono inflessibile, ma non un mo­stro. So qual è il dramma dei ragazzi e delle loro famiglie. Per questo, e non lo si dice mai, nella mia legge è con­templata la possibilità - siccome lo spacciatore è spesso tossicodipenden­te - di scontare la pena in comunità. E nella prossima legislatura vogliamo ridurre i tempi della giustizia».
Come?
«Troveremo il modo. Noi aiuteremo i magistrati ma i magistrati devono aiu­tare noi, non ammettendo la sciatteria e il lassismo che albergano anche nella loro categoria».
E' dell'idea di abolire uno dei tre gradi di giudizio?
«No. Non sono giustizialista. Il giusti­zialismo è la caricatura della giustizia. Sono garantista e per la giustizia. Ma quella vera e non piagnona».
fonte: La Stampa

mercoledì 6 febbraio 2008

Immigrazione. Spesi a Modena 12 milioni di euro in sei anni per assistenza ad extracomuniatri clandestini

12.217.272 euro. E’ questa la cifra record spesa in nemmeno 6 anni, dal gennaio 2002 al settembre 2006, dall’Usl e dall’Azienda ospedaliera di Modena per dare assistenza sanitaria agli stranieri clandestini o irregolari privi di permesso di soggiorno. Una spesa enorme ed in continuo aumento che oltre a creare una voragine finanziaria nei bilanci della sanità pubblica, conferma un allarme sociale di dimensioni epocali. Mentre i cittadini devono subire il costante aumento del costo dei ticket e dei tempi di attesa per le prestazioni specialistiche scopriamo che buona parte della spesa sanitaria viene bruciata per erogare gratis servizi ed assistenza a chi secondo le legge non dovrebbe nemmeno essere in Italia.
A rendere noto le cifre sostenute a Modena ed in Regione per garantire assistenza sanitaria agli extracomunitari non iscritti al Servizio Sanitario Nazionale, è il Consigliere regionale Andrea Leoni in riferimento alla risposta data dall’Assessore regionale alla sanità Bissoni all’interrogazione che aveva presentato sulle spese sostenute dalle Ausl per l’assistenza agli stranieri irregolari muniti del tesserino STP (Straniero temporaneamente presente).
Se nel 2002 il costo dei servizi erogati dalle aziende sanitaria e ospedaliera di Modena ammontava a 1.547.000 euro, nel 2003 la cifra è salita a 1.874.000 mila euro mentre nel 2004 si è arrivati a 2.744.000 euro. La spesa pubblica per la sola provincia di Modena ha poi raggiunto la cifra di 2.551.000 euro nel 2005 e 2.400.000 euro nell’anno 2006. Il dato dei primi 9 mesi del 2007 conferma il preoccupante trend, attestandosi a 1.527.000 spesi. In tutto più di 12 milioni di euro per garantire assistenza a chi non dovrebbe trovarsi in Italia.
Siamo di fronte a cifre allarmanti – ha affermato Leoni – che confermano il devastante impatto sociale ed economico provocato in questi anni dalle politiche buoniste delle amministrazioni rosse che fanno da richiamo per gli immigrati clandestini. Il problema che denunciamo non è quello di garantire, come prevede la legge, le prestazioni di emergenza sanitaria a chi si trova illegalmente sul nostro territorio. Ciò che contestiamo è l’irresponsabile tentativo in atto di trasformare le prestazioni fornite agli stranieri irregolari da straordinarie ad ordinarie. Si vuole estendere anche l’assistenza sanitaria di base e non di emergenza, che per legge deve essere garantita solo ai cittadini iscritti al servizio sanitarie nazionale, a tutti gli extracomunitari clandestini ed irregolari.
Questo già succede in Emilia Romagna dove la tendenza di molte Ausl è quella di fornire non solo le prestazioni essenziali previste dalla legge ma anche quelle ordinarie. I danni di queste politiche sono e saranno enormi. Per questo continueremo ad essere in prima fila, in tutte le sedi istituzionali, per contestare queste politiche irresponsabili che pongono una seria ipoteca sul futuro del nostro Paese e sul modello di vita e di società nella quale viviamo.

sabato 26 gennaio 2008

Immigrazione. Il crimine importato ci costa 7 miliardi

Alla fine lo Stato italiano ci ha rimesso altri 7 miliardi di euro. Non si tratta di una «manovra» correttiva, un colpo d’ala del defunto governo Prodi. La cifra da capogiro si riferisce al costo medio totale per la collettività della criminalità straniera in Italia ed è relativa al solo 2007.
Dato diffuso dalla Fondazione Ismu attraverso uno studio che valuta costi e benefici delle politiche di reazione e prevenzione del crimine d’importazione straniera. «In realtà è soltanto una stima della spesa pubblica affrontata negli ultimi due anni - precisa Andrea Di Nicola, docente di Criminologia all’Università di Trento e curatore della ricerca -. Partiamo da un presupposto molto semplice: le condotte di reato arrecano alla società diverse voci di costo, a seconda della gravità e della frequenza».
Ecco le variabili prese in esame: i singoli costi reato per reato, costi di anticipazione del reato (ad esempio, gli investimenti privati per dispostitivi d’allarme), i costi conseguenti al reato, divisi tra pecuniari, biologici e morali, nonché i «lost output» (rispetto al mancato reddito in conseguenza della violenza subita). Infine sono stati calcolati i costi delle attività inquirenti e giudicanti, quindi le spese processuali e per l’eventuale detenzione dei responsabili.
Risultato, a incidere sulle casse italiane già in difficoltà sono soprattutto le violenze sessuali (oltre 2,7 miliardi di spesa), le lesioni dolose (per più di 2 miliardi), scippi, borseggi, furti d’auto (2,4 miliardi in totale). Seguono nella graduatoria delle zavorre le rapine in banche o in uffici postali (quasi 10,5 milioni di euro). Tutte «specialità» tipiche della criminalità di marca straniera. Un capitolo a parte, da sottolineare, è come la probabilità di identificazione dei colpevoli varia dal 52-54 per cento nel caso di lesioni personali e stupri scendendo fino al 14 per cento per i furti. Intanto un denunciato su quattro, un condannato su cinque, e più di un detenuto su tre è straniero. In Lombardia, poi, dietro le sbarre praticamente la metà (47,5%) non sono italiani. «Restano dentro, in media, meno di un mese. Gli istituti di pena somigliano così a lussuosi alberghi con la porta girevole, al prezzo di 140 euro al giorno», aggiunge Di Nicola. E noi paghiamo.
Il ministro dell’Interno Giuliano Amato a giugno commentava così il dossier nazionale sulla delinquenza - «Non dobbiamo fare un uso emotivo di dati che possano portare a ritenere fondata l’equazione “immigrato uguale a criminale” -, giungendo comunque alla conclusione: «Semmai la criminalità si concentra nel mondo dell’irregolarità». Allora si spiegano altre cifre del nuovo Rapporto Ismu. Cioè quelle che riportano il numero degli immigrati presenti sul territorio. Oggi fanno circa 4 milioni, il 6 per cento della popolazione, 320mila in più con una crescita di 8,7 punti in un anno e quasi del 20 nel biennio prodiano ’06-07. «Boom di regolari», dicono gli esperti, «effetto della regolarizzazione ottenuta con i decreti flussi 2006, ma non ancora tradotto in iscrizioni anagrafiche». Sanatoria di fatto targata Amato&Ferrero che ha fatto crollare la quota di clandestini a 350mila unità, -46,3 per cento: minimo storico.
L’altra faccia della moneta mostra però l’incremento al 103% di quei 700mila stranieri (non residenti) ritrovatisi nella lista dei permessi concessi dal Viminale. A beneficiarne, con tassi a doppia cifra, i soliti noti: romeni (+14,8%), ucraini (+12,2%), serbi e moldavi (addirittura +18%). Amara considerazione finale: «Permane l’immagine di un paese dove è facile entrare illegalmente; e lo è altrettanto soggiornarvi».
fonte: Il Giornale

venerdì 25 gennaio 2008

Romano Prodi. Storia di un italiano piccolo piccolo

Lo abbiamo visto a Montecitorio e a Palazzo Madama pietire fiducie che sapeva di non meritare. Fuori dai Palazzi schivare la gente che lo fischiava ed accostarsi con gli occhi socchiusi, compiacente, a giornalisti-tappetini che lo blandivano. Gli abbiamo sentito dire banalità incommensurabili, con aria ispirata, al punto di suscitare il riso o il compatimento.
In ogni suo atteggiamento abbiamo colto i tratti di un furbo levantino sul punto di vendicarsi di qualcuno, nemico dichiarato o amico sospettato di tradimento: magari non è così, ma questa è l’impressione che dà. Comunque mai la sua voce, il suo incerto eloquio o i suoi gesti ci sono apparsi quelli di uno che voleva mostrarsi gradito e gradevole.
E ci siamo chiesti: ma da quale anfratto della complessa psicologia degli italiani è venuto fuori Prodi? A quale “anima” del Paese è riconducibile il suo “spirito animale” che lo guida nel dividere e mai nel tentare di unire? Un uomo capace di scatenare risse tribali in una società fragile preda degli umori più volubili o di farsi sopraffare tanto per il gusto di dimostrare la sua testardaggine, non sarebbe un problema se non facesse il presidente del Consiglio. Per nostra disgrazia è un problema di dimensioni gigantesche dal momento che non si è mai reso conto quanto la sua impopolarità renda insopportabile la vita pubblica.
Questo dato non può essere sottaciuto. E’ un dato pre-politico, al quale Gustav Le Bon o Scipio Sighele, studiosi della dimensione pubblica delle personalità, conferiscono un’importanza tutt’altro che marginale nel raccontare le fortune dei potenti o dei semplici rappresentati del popolo. Prodi suscita entusiasmi cimiteriali perché esprime un’Italia dimessa, priva di grandezza, di generosità, di ambizioni.
Vivacchia come può, per quanto può. A guisa di quegli emarginati metropolitani che non si domandano mai se hanno un destino oppure no: punta a durare. Ogni giorno che passa non è un giorno perduto, ma guadagnato. E si avvia così alla gloria dei sopravvissuti, come tanti altri italiani che hanno avuto la ventura di salire i gradini del potere e goderne senza apprezzarlo.
La grande scuola di politologia napoletana, applicata alla miseria, direbbe di Prodi che il suo massimo piacere è quello di “chiangere e fottere”. L’interpretazione è variabile. Ma questo è il dato del suo carattere politico.E per quanti sforzi si facciano al fine di nobilitarlo, resta quello che è: un politico senza vocazione. E niente c’è di peggio che essere governati da una figura di tal genere. Infatti, cooptato per disperazione da una classe politica orfana di leader, dal 1996 immagina che gestire la cosa pubblica equivalga a prendersela: Palazzo Chigi non è la sede del governo, ma un’agenzia di collocamento di amici (possibilmente fidati) che devono gestire il patrimonio dello Stato sotto l’abile regia del presidente del Consiglio. Come quegli italiani che mettendo piede in una prestigiosa dimora sono attratti più dalla cantina e dalla dispensa che dai preziosi arredi.
Prodi attraversa il deserto della politica italiana senza neppure darsi l’aria di chi si finge salvatore della Patria: salvare se stesso o affermare il suo smisurato ego è tutto. Non si spiegherebbe altrimenti l’esaltazione che lo pervade quando sta per cadere, né l’incapacità di stabilire un rapporto di simpatia con i suoi governati. E, soprattutto, non ammette che lo si trascuri.Quando lo defenestrarono da presidente del Consiglio, esattamente dieci anni fa, pretese la presidenza della Commissione europea e alla scadenza del mandato, non ha fatto altro che preparare le condizioni per tornare a governare, inventando (anzi facendosi inventare) un partito che non è mai nato sotto la sua guida.
Insomma, un leader senza popolo, un generale senza truppe. Fastidioso il popolo, fastidiose le truppe. Vuoi mettere: piangere e fottere, come direbbero tutti gli altri italiani, è molto meglio. Almeno fino a quando popolo e generali (nel senso di partitocrati) decretano che il suo tempo è scaduto. E allora, a Prodi non resterà che l’ultimo treno per Bologna.
fonte: Liberal