venerdì 31 agosto 2007

La Turchia e l'idiozia della vecchia Europa

L’elezione di Abdullah Gul a presidente della Turchia pone il sigillo alla sconfitta piena e totale del kemalismo con conseguenze straordinarie non solo per il quadropolitico mediterraneo, ma anche per la riflessione dottrinale sull’Islam nella modernità. Per imporre il laicismo, per “esportare la democrazie europea”, fortemente influenzato dal pensiero massone e mazziniano (i Giovani Turchi copiarono il nome dalla Giovane Italia).
Kemal Atatürk abolì il califfato e il sultanato, sciolse tutte le confraternite religiose e ne confiscò gli immensi beni, abolì la shari’a e la sostituì col codice penale Rocco e quello amministrativo di Neuchâtel e abolì anche l’alfabeto arabo (scritto da destra a sinistra) e impose quello latino, con una cesura drammatica che impedì ai turchi la lettura dei testi nella vecchia scrittura (di fatto, la censura totale sulla cultura islamica). Atatürk pose infine l’esercito nazionale a guardia della laicità, sovraordinandone il potere a tutte le istituzioni (nove anni fa una parlamentare fu privata del mandato per la sola colpa di indossare il hijab in aula).
Una riforma che ha riscosso per 80 anni universale approvazione, tanto che da sempre molti studiosi (Bernardi lewis tra questi) la indicano come l’unica in grado di coniugare –con la sua violenza riformatrice- Islam e modernità . Passati 83 anni, il kemalismo, oggi è morto.
Per via democratica la “vecchia talpa musulmana” ha sbriciolato tutti i vincoli che tenevano l’Islam ai margini del potere e l’Akp, un partito moderno e moderato, ma integralmente musulmano, è stato scelto dal popolo turco quale detentore di tutto il potere politico: governo e presidenza della repubblica. Il fallimento del modello di stato laico kemalista, pur legittimato dalla straordinaria vittoria militare di Atatürk contro l’invasione greco-inglese del 1920-22 (a cui partecipò pure l’Italia), costituisce oggi la prova provata che nessun modello, nessuna dottrina politica di marca laico-occidentale riesce comunque a imporsi nelle società islamiche.
Momento di riflessione capitale non solo per l’Iraq, ma anche per l’Iran, là dove l’esperienza turca indica che solo una proposta politica democratica in ambito musulmano potrà riuscire a accumulare sufficiente consenso popolare per rovesciare la dittatura.
Ma il fallimento del kemalismo, suona soprattutto da monito, inascoltato, alla misera cultura politica dell’Europa.
E’ stata infatti l’Ue a fare a Erdogan l’immenso favore di “imporgli” la eliminazione del potere sovraordinato al governo dei militari, fedeli e democratici custodi della laicità.
E’stata l’Ue a pretendere l’idiota applicazione meccanica dei “criteri di Copenhagen” (pensati per guidare alla democrazia i paesi ex comunisti, non certo quelli musulmani) che hanno permesso al antilaicista Erdogan di impadronirsi, grazie al voto del 46,5% degli elettori, di tutto, assolutamente tutto il potere. Ora, l’esercito turco, l’unico al mondo a aver fatto tre golpe pienamente democratici, non ha più potere politico e non può più fare da guardia al laicismo. L’Ue, può solo portare i ceri alla madonna: l’Akp di Erdogan e Gul –anche grazie al golpe militare del 1997- è un partito pienamente democratico. Ma le prossime elezioni potrebbero essere vinte dai Fratelli Musulmani, o dai fondamentalisti. Come in Algeria. E si sa come è finita.
Carlo Panella

giovedì 30 agosto 2007

Olanda, chi critica l'Islam rischia la decapitazione

Geert Wilders, l’uomo politico più discusso in Olanda, ci riceve in Parlamento, nel suo studio, fuori dal quale ci sono ben quattro guardie del corpo. È affabile, deciso, ma per niente arrogante, come generalmente viene descritto dai media del suo Paese. Ha seguito le orme del regista Theo van Gogh, ucciso dai fondamentalisti islamici, ha lo stesso coraggio e gli stessi ideali per cui hanno ammazzato Pim Fortuyn. È sotto scorta da mattina a sera.
Signor Wilders, 177 nazionalità presenti in una sola città come Amsterdam non preoccupano?
«Certo, mi batto da anni perché il mio Paese possa tornare alla normalità».
Il suo partito si chiama Partito della Libertà. Libertà di.....
«Libertà di fare con i propri soldi quello che si vuole. Gli olandesi pagano troppe tasse, addirittura il 50%. Mentre si dovrebbe avere il diritto di disporre del proprio denaro, guadagnato con tanta fatica. E poi libertà di gioire di una bella giornata di sole e della vita, di girare per strada senza essere assaliti, derubati, picchiati. Soprattutto libertà di vivere nella propria nazione conservandone la cultura. Infine libertà di esprimere le proprie idee senza per questo essere costretti a girare sotto scorta perché vogliono metterti a tacere per sempre.La stampa olandese parla ampiamente della decisione del vostro governo di stanziare 28 milioni di euro per far fronte al problema del radicalismo islamico e degli estremisti di destra.
Questa somma dovrebbe servire a costituire centri di sostegno per i comuni più colpiti da questa piaga e per instaurare con integralisti e ultrà un proficuo “dialogo interculturale”. Che ne pensa?
«Un pessimo piano (del partito socialista, al governo con i cristiano-democratici del premier Pit Balkenende, ndr). Con loro il dialogo non serve più. Ci abbiamo provato per anni e non abbiamo ottenuto nulla. Anzi, la situazione è peggiorata. Con questo costoso progetto, assolutamente privo di concretezza, trattiamo i colpevoli come vittime. Basta con le parole, con la tolleranza. Si passi ai fatti».
In che modo?
«Prima di tutto se non rispettano le nostre norme, le nostre regole e la nostra cultura devono tornare da dove sono venuti. Se commettono crimini, vanno puniti severamente. Se dopo essere usciti di prigione ricominciamo a delinquere devono essere espulsi. Dobbiamo chiudere le frontiere, riappropriarci della nostra terra e usare invece questi fondi per i nostri vecchi, la sanità, per accudire gli handicappati». La sua dichiarazione sul fatto che il Corano andrebbe proibito come il Mein Kampf di Hitler ha suscitato molte polemiche, accuse contro di lei, anche da parte degli altri partiti al governo.
Non ha forse esagerato con questa che è parsa una provocazione inaccettabile nei confronti di una religione?
«Il Corano è un libro fascista, aggressivo, che semina odio. Non voglio discriminare o provocare, dico solo che la violenza che trasuda dai testi islamici non la si trova in nessun’altra religione: né cattolica, né ebraica, né buddhista. Diciamo piuttosto che il Corano è più un’ideologia che una religione. Non ce l’ho con l’islam, con i musulmani come persone, ma appunto con un’ideologia che vuole privare l’uomo della libertà, che non rispetta le donne, che vuole eliminare gli omosessuali. Il mio idolo è Oriana Fallaci: lei aveva capito la pericolosità dell’invasione islamica! Come lei odio il relativismo, cioè il voler credere che ogni cultura sia la stessa, perché non è vero.
Olanda, chi critica l'Islam rischia la decapitazione

Amsterdam dovrebbe essere inserita nel Guinness dei primati per il numero di nazionalità presenti nel suo territorio: 177. Il più alto nel mondo. Ha battuto persino New York, con le sue 150. Senza contare che 123mila dei suoi abitanti hanno la doppia cittadinanza. Questi dati stanno preoccupando sempre più gli olandesi che sino a ora sono stati molto tolleranti e generosi nei confronti degli immigrati, aprendo loro le porte e offrendo loro un tetto. Case pulite, dotate di tutto il necessario per una vita dignitosa: sussidi da far invidia a un lavoratore di qualsiasi Paese. D’altra parte le cifre parlano chiaro: attualmente ad Amsterdam ci sono 64.588 marocchini e 37.421 turchi. Tanto per fare un paragone, gli italiani sono 1.654 e i tedeschi 6.670.
Il primo a ribellarsi a questa «vera e propria invasione » fu il regista Theo van Gogh. Cercò in tutti i modi di attirare l’attenzione dei media sul pericolo della culturanon cultura islamica e dei suoi terroristi. Del suo film Submission si è parlato in tutto il mondo. Soprattutto perché segnò la sua condanna a morte. «Ci elimineranno tutti », ripeteva spesso. E tre anni fa l’hanno ammazzato come un cane, per strada, lasciando un biglietto sul suo corpo, conficcato nella schiena con un coltello. Anche la sceneggiatrice di Submission è diventata «famosa». Parliamo della bella somala Ayaan Hirsi Ali, considerata un’eroina per la lotta che conduce a favore dei diritti delle donne islamiche, deputata del Partito popolare per la libertà e democrazia (Vvd). Ayaan Hirsi ha definito il profeta Maometto «un perverso tiranno ». Per cui pure lei si trova da tempo nella lista nera dei condannati a morte per blasfemia. «Non ho paura di morire - dice -, vengo da un Paese dove ogni giorno ci si confronta con le malattie, la fame, il degrado, la morte. Ci sono abituata. Pertanto continuerò la mia lotta».
C’è un’altra donna del Vvd che da anni si batte per la chiusura delle frontiere, Rita Verdonk, 52 anni, cattolica, che è stata dal 2003 al 2006 ministro dell’Immigrazione. È stata definita la «donna di ferro» proprio per la sua intransigenza nei confronti degli immigrati. Nel 2005 ha fatto approvare una legge molto importante sull’integrazione degli stranieri, grazie alla quale sono stati istituiti corsi obbligatori di conoscenza della lingua olandese e dell’organizzazione sociale per coloro che vogliono ottenere un regolare permesso di soggiorno. Nel suo partito ha militato Geert Wilders, di recente salito alla ribalta delle cronache per aver paragonato il Corano al Mein Kampf di Adolf Hitler, chiedendo al Parlamento che venga proibito «in quanto si tratta di un libro dannoso che istiga alla violenza».
Wilders non usa mezzi termini: «Chiudiamo le moschee radicali, mandiamo a casa gli imam e fermiamo l’immigrazione dei Paesi non occidentali, prima che sia troppo tardi. È incredibile quello che sta succedendo in Olanda. Eppure la tv ha mandato in onda una ripresa girata in segreto nella moschea diAmsterdam “al Taweed”, mentre l’imam diceva che gli amici della democrazia erano figli di satana, le donne dovevano essere bastonate e gli omosessuali buttati giù dai tetti. E noi dobbiamo tenerci in casa questi fanatici? Fuori tutti i gruppi estremisti islamici dal nostro Paese».
In quanto a minacce... pure lui ne ha accumulate una serie infinita: alcuni siti internet radicali hanno lanciato una vera e propria campagna pubblicitaria a favore della sua eliminazione. Si passa dall’elargizione di un premio di ben 92 vergini alla promessa del paradiso eterno e dell’eterna riconoscenza di Allah nei confronti di «qualsiasi islamico disposto a decapitarlo ». Secondo alcuni Wilders ha ereditato il pensiero di Pim Fortuyn, leader del partito Leefbaar Nederland. L’aggettivo olandese leefbaar, «vivibile », è già di per sé molto significativo. Fortuyn, che voleva un’Olanda vivibile, fu ucciso il 6 maggio 2002, all’uscita degli studi televisivi dove aveva registrato un programma contro il proliferare del radicalismo islamico. Nella lista dei condannati a morte è entrato da poco anche Ehsan Jami, un ragazzo iraniano di 28 anni che ha fondato un comitato di ex musulmani.
«Il Corano non è credibile. È anacronistico. Se vieni dal mondo islamico non vuol dire che devi per forza essere musulmano», ha detto Jami durante un recente dibattito tv. «Essere musulmano non è un fattore genetico. Con la creazione di questo comitato voglio dire ai giovani che, come me, amano la libertà, di uscire allo scoperto e di ribellarsi a una religione imposta, incivile, inumana».Un discorso coraggioso. E pericoloso. Il giorno dopo, infatti, è stato assalito da tre africani all’uscita di un supermercato e picchiato a sangue.
il Giornale

mercoledì 29 agosto 2007

Carlos. Il professionista del terrore

Nel libro «Anni di terrore» Magdalena Kopp, compagna del famigerato Carlos, conferma il ruolo dei regimi comunisti nel sostenere il terrorismo internazionale «Spesso dopo un’azione terroristica, lui si rifugiava a Berlino Est. Al di là del Muro era al sicuro e lì lo aspettavo. La Stasi ci proteggeva, potevamo muoverci liberamente, senza rischi».
Lui è Illich Ramírez Sánchez, alias Carlos lo sciacallo, negli anni Settanta e Ottanta il terrorista più ricercato del mondo, l’autore di stragi paurose e di imprese da brivido come il sequestro nel 1975 dei ministri del Petrolio riuniti a Vienna per la conferenza dell’Opec. E la persona che lo aspettava al di là del Muro è Magdalena Kopp, la donna che ha vissuto con Carlos per tredici anni e che ora racconta la sua vita con lo sciacallo in un libro, «Anni di terrore», la cui uscita imminente è preceduta da una lunga intervista concessa al quotidiano Bild Zeitung.
Tedesca, un tempo militante nei movimenti dell’estrema sinistra di Francoforte, la Kopp è oggi una donna sulla sessantina che ha ripudiato il suo passato di terrorista dopo aver scontato una lunga pena detentiva in Francia per un attentato a Parigi. Il suo racconto non contiene rivelazioni clamorose. Ma è ugualmente interessante perché conferma una volta di più, attraverso una testimonianza diretta, l’appoggio che i regimi comunisti diedero al terrorismo internazionale e alle stragi commissionate a Carlos dai servizi di alcuni Paesi del Medio Oriente.
«La Stasi non ci ha mai utilizzato però ci permetteva di usare il territorio della Ddr come rifugio e base operativa. A Berlino Est Carlos teneva i contatti con i Paesi arabi e con altri movimenti terroristici tra cui l’Eta degli indipendentisti baschi. La città al di là del Muro era uno specie di luogo d’incontro del terrorismo internazionale, lì venivano pianificati gli attentati e lì avvenivano i pagamenti agli esecutori delle stragi. Spesso Carlos si recava anche a Bucarest per procurarsi documenti falsi, una specialità dei servizi romeni».Catturato in Sudan nel 1994, Carlos fu estradato in Francia dove è stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di due poliziotti nel 1975. Uno dei tanti conti con la giustizia. Secondo il Bild Zeitung, sarebbero più di 1.500 le vittime delle stragi e dei dirottamenti riconducibili a Carlos e al suo gruppo. Una vita accompagnata da una lunga striscia di sangue ma sempre vissuta nell’agiatezza. «Carlos si faceva pagare molto bene dai suoi committenti», racconta la sua ex-compagna. «Pasteggiavamo a base di champagne e caviale, trascorrevamo lunghi periodi in ville con piscina o in grandi alberghi. Quando eravamo nei Paesi arabi, le spese venivano pagate dai governi che ci ospitavano. Nella Ddr invece dovevamo pagare noi i conti, ma i soldi non ci sono mai mancati. Ricordo che una volta ricevette una grande somma dalla Libia e un’altra 200mila dollari in contanti dai servizi iracheni». Occhi verdi, capelli corvini, lineamenti marcati che rivelano un carattere ribelle, un volto oggi segnato da rughe profonde ma che un tempo doveva essere capace di sedurre, la Kopp, che ha anche avuto una figlia da Carlos, distrugge la leggenda secondo la quale lo sciacallo era un grande conquistatore di donne. «La mia attrazione per lui - racconta nell’intervista - nasceva da una mia malattia interiore, da un mio bisogno perverso di sentirmi ostaggio, prigioniera. Quanto a lui è sempre stato un amante mediocre. I primi tempi prima di fare l’amore metteva la pistola sul tavolo. Diceva di essere un rivoluzionario, un vero comunista. In realtà era un reazionario, un macho dalle idee ristrette come tutti i terroristi che ho conosciuto».
Chi è Carlos
Nato in Venezuela nel 1949, Ilich Ramírez Sánchez, noto come “Carlos” o “lo sciacallo” riceve da suo padre, avvocato, una formazione marxista. Il nome Ilich s’ispira infatti a Lenin. Da ragazzo partecipa al movimento comunista giovanile. Oltre allo spagnolo, impara l’arabo, il russo, il francese e l’inglese. Studia a Londra e a Mosca, abbraccia la causa palestinese e va in Giordania, in un campo del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. È lì che prende lo pseudonimo di Carlos. La sua carriera di terrorista comincia nel 1973, quando, per conto dell’Fplp, Carlos prenderà parte a diversi atti terroristici, tra cui dirottamenti e missioni per conto dei servizi del blocco sovietico. Arrestato nel ’94 e processato, Carlos sta scontando l’ergastolo in Francia. L’appellativo “sciacallo” gli è stato dato dopo l’uscita del libro Il giorno dello Sciacallo, in cui lo sciacallo è un terrorista assoldato per eliminare de Gaulle. Ha avuto tre mogli: prima la tedesca Magdalena Kopp (da cui ha avuto la figlia Elba Rosa), poi una palestinese e infine Isabelle Coutant-Peyre, che è anche il suo avvocato.

tratto da Il Giornale

L'alto Adige è italiano. Chi non vuole il Tricolore emigri in Austria

Luis Durnwalder, presidente della Provincia autonoma di Bolzano vuole che le forze di polizia in azione nel Sudtirolo parlino italiano e tedesco. Il problema è che selezionare un numero adeguato di poliziotti, carabinieri e finanzieri poliglotti è un’impresa molto ardua. Così il governatore sudtirolese ha chiesto che lo Stato promuova concorsi riservati alla popolazione locale. In caso contrario, Bolzano chiederà di non dipendere più da Roma per il reclutamento delle proprie forze di polizia. E Karl Zeller, deputato della Südtiroler Volkspartei, è pronto a presentare una proposta per reintrodurre l’arruolamento diretto nelle forze dell’ordine.
La polemica è nell’aria da qualche giorno. Era stata sollevata dalla «pasionaria» sudtirolese Eva Klotz, scandalizzata da un episodio capitato la scorsa settimana: alcuni giovani sarebbero stati «umiliati» da due Carabinieri che avevano fermato la loro auto in una località della Val Pusteria e si erano rivolti loro in italiano, perché «qui siamo in Italia e si parla italiano».
Il quotidiano in lingua tedesca Dolomiten ha subito cavalcato la protesta pretendendo «sanzioni severe» per la pattuglia di militari: il bilinguismo negato sarebbe una vera emergenza nella provincia di Bolzano e Durnwalder dovrebbe essere più rigoroso nel difendere i diritti della minoranza linguistica. Il governatore si è schierato con l’«ala dura» tedesca e ha scritto una lettera dettagliata al ministro dell’Interno, Giuliano Amato, sottolineando che «tra le forze dell’ordine ci sono sempre meno altoatesini» ed esigendo che le prossime forze di polizia siano reclutate attraverso concorsi riservati ai residenti in Alto Adige, in grado di esprimersi nelle lingue ufficiali. «Altrimenti - ha detto il “kaiser” del Sudtirolo nell’incontro con la stampa di ogni lunedì - non ci resterà che chiedere la competenza sulla polizia per la provincia autonoma». Questa volta, il «kaiser» vuole il suo esercito come accade per esempio in Germania, Austria e Stati Uniti, dove accanto alla polizia federale c’è anche una polizia regionale.

sabato 25 agosto 2007

Fanny Ardant in delirio: "Curcio un eroe"

"Curcio un eroe"
PARIGI, 23 agosto 2007 - "Renato Curcio? Un eroe che ha combattuto per una scelta di libertà e che non si è arricchito come altri ex terroristi diventati uomini d'affari".
La dichiarazione choc è dell'attrice Fanny Ardant ed è stata mandata in onda oggi dal Tg2 delle ore 13 che ha ripreso alcuni brani di un'intervista rilasciata ad una testata transalpina dalla Ardant, prossimamente ospite alla Mostra Internazionale del Cinema. In pieno delirio, l'attrice francese si è lanciata in un'appassionato elogio delle Brigate Rosse. Nemmeno una parola per le centinaia di vittime dei terroristi negli anni di piombo né tantomeno per i loro familiari. La sortita della Ardant sta scatenando un pandemonio in Francia, Paese notoriamente ospitale verso i terroristi italiani sino a quando all'Eliseo non è arrivato Sarkozy. Tant'è vero che ieri è stata arrestata Marina Petrella, condannata all'ergastolo con sentenza definitiva al termine del processo Moro ter e latitante Oltralpe da quindici anni.
Bertolini: "Vergogna. Chieda scusa ai famigliari delle vittime e all'Italia"
Durissime le reazioni anche in Italia: "Fanny Ardant chieda scusa ai familiari delle vittime e all'Italia'' -attacca Isabella Bertolini vicepresidente dei deputati di Forza Italia - ''Vergogna, vergogna, vergogna. La signora Ardant chieda immediatamente scusa alle migliaia di famiglie italiane colpite negli affetti dalle Brigate Rosse e all'Italia.
Affermare che Curcio e' un 'eroe' - aggiunge - e' semplicemente raccapricciante. Curcio era forse un eroe quando dal carcere rivendicava ed applaudiva l'assassinio di Aldo Moro e, parafrasando Lenin, affermava che abbattere un nemico di classe era il piu' alto atto di umanita' in una societa' divisa in classi? Alla signora Ardant un consiglio: prima di parlare di vicende che hanno portato tanti lutti nella storia di un paese, si informi meglio.
Il fenomeno brigatista - prosegue Isabella Bertolini - purtroppo, e' riuscito a vivere e a prosperare anche grazie a tanti radical-chic che ritenevano i brigatisti degli eroi, proprio come ha fatto lei.
Signora Ardant eviti commenti del genere ed evitera' di offendere la memoria di magistrati, poliziotti, carabinieri, politici, imprenditori, operai e gente comune assassinata anche grazie al suo 'eroe' Renato Curcio''.

sabato 11 agosto 2007


anche per il Conservatore in Azione
qualche giorno di meritato riposo estivo

L'Europa che non vuole diventare islamica

Crediamo che sia un dovere dare il massimo della informazione possibile alla manifestazione organizzata dalla Danimarca e da molti altri Paesi dell’Ue contro l’islamizzazione dell’Europa il prossimo 11 settembre a Bruxelles davanti al Parlamento Europeo. Stop Islamisation of Europe (Sioe) è un’alleanza fra popoli in tutta Europa, uniti all’unico scopo di impedire all’islam di diventare una forza politica dominante sul Continente. Vi si è associata una grande massa di inglesi al grido: «No Sharia Here», gente che vuole mantenere la legge di Sua Maestà e fermare l’avanzata strisciante della sharia in Inghilterra.
Pur dando questa informazione noi vogliamo però anche dire con assoluta chiarezza che siamo sicuri che non si otterrà nulla. Riassumiamo i motivi più evidenti dell’inevitabile fallimento, più che altro allo scopo di far comprendere quanto sia tragica la situazione dell’Europa. Prima di tutto la scelta di Bruxelles. Questo significa che gli organizzatori non hanno capito quale sia la causa fondamentale, anzi l’unica, della islamizzazione dell’Europa. L’Unione europea è stata costruita appositamente a questo scopo: rendere agevole ai musulmani invadere l’Occidente giungendovi da tutte le parti, occupandone un 20% in Svezia, un 15% in Danimarca, un 30% in Gran Bretagna e così via. Insomma, non ci vuole molto a capirlo: se si vuole allagare un territorio, per prima cosa si tolgono le dighe. È proprio questo che è stato fatto: si sono tolte le dighe fisiche, psichiche, culturali, abolendo i confini fra gli Stati sia per le persone sia per le merci, eliminando le differenze monetarie, eleggendo due lingue ufficiali, l’inglese e il francese, le più note agli immigrati provenienti dall’Africa e dall’Asia, quasi tutti ovviamente musulmani.
È stato condannato come gravissimo peccato morale e politico il cosiddetto «nazionalismo», così che ai popoli d’Occidente, creatori degli Stati nazionali, è stata tolta l’unica passione che poteva spingerli a difendersi dalla invasione di stranieri: la Patria. La violenza con la quale i governanti hanno imposto ai propri sudditi questo comportamento è stata etichettata, da una parte come virtù di solidarietà e dovere verso i poveri, e dall’altra, incuranti della contraddizione, come sistema per aumentare il patrimonio europeo in denaro, in mercato, in competitività, in bassa forza lavoro, innalzando a Divinità assoluta la libertà degli scambi, delle commistioni, delle «integrazioni».
Questa è l’unica, vera motivazione della costruzione che porta il nome di Unione Europea: togliere agli europei il senso della proprietà, la percezione di avere diritto a possedere una qualsiasi cosa, a cominciare dal territorio sul quale vivono e per il quale hanno tante volte combattuto e sono morti; di conseguenza, non possedere né istituzioni nazionali, né moneta, né banche, né governanti, né storia, né religione propria, ma al contrario abituarsi a considerare appartenente agli stranieri, a coloro che se ne appropriano, tutto quello che si riteneva appartenesse agli europei, inclusi ovviamente il diritto, i costumi, i valori, la religione.
Se non ci si convince di questo, ossia che la Ue è stata voluta dai governanti per espropriare i cittadini, e non ci si convince quindi che ogni Stato deve prendere immediatamente tutte le decisioni indispensabili per salvaguardare la propria sopravvivenza come nazione libera, come territorio che porta un nome e che appartiene ai cittadini che ne hanno formato la storia, la lingua, la tradizione religiosa, qualsiasi protesta, anche se degna del massimo rispetto, rivolta a Bruxelles, non serve a nulla. Inoltre gli Stati che formano l’Unione Europea sono tutti molto diversi gli uni dagli altri e i bisogni dell’uno non sono affatto simili a quelli dell'altro. L’Italia, per la sua conformazione geografica, per la sua storia linguistica (la Chiesa sembra aver dimenticato che il latino di cui si è servita per quasi duemila anni, era la lingua dei Romani), artistica, scientifica, per la sua eccessiva densità demografica e la fragilità del suo territorio ha assoluto bisogno che si dichiari subito esclusa dal patto di Schengen, chiudendo tutti i confini e informando a gran voce coloro che da ogni parte del mondo si apprestano a venire in Italia che non sarà ammesso più nessuno, per nessun motivo. Inoltre l’Italia è sede della Città del Vaticano e del capo della Chiesa cattolica. Questo significa che il prossimo, inevitabile conflitto con l’islam la vedrà in prima fila, che lo voglia o no, salvo che si dichiari subito sottomessa al volere musulmano e traditrice del Cristo, cosa di cui saremo costretti a convincerci se guardiamo al comportamento tenuto fino a oggi sia dai governanti sia dal clero.
Il silenzio del clero è impressionante. Cominciare a parlare adesso, come abbiamo visto fare con timide allusioni in questi giorni, se non fosse tragicamente doloroso, sarebbe perfino ridicolo, in quanto era tutto prevedibile da almeno 15 anni. La colpa più grave di coloro che hanno responsabilità di governo, ivi inclusa la gerarchia ecclesiastica, è quella di non prevedere le conseguenze delle proprie decisioni e di non fermarsi neanche un attimo a riflettere sul futuro di quei milioni di persone che hanno loro affidato la propria patria, il futuro dei propri figli, i propri beni, la propria storia, la propria religione.
«L’Occidente diventerà il Sud-Oriente. Capirne i processi sarebbe stato lo studio preliminare che i promotori dell’Unione avrebbero dovuto fare. Il fatto però che si sia dato per scontato che l’Occidente europeo, ossia la cultura nordista, avrebbe conquistato e annesso il sud-est, ampliando smisuratamente il suo territorio, il suo mercato, la forza del Continente, questo è il gesto più sconsiderato e sicuramente perdente che i politici-economisti abbiano compiuto. Perché, come è evidente, è il sud-est afro-asiatico che si sta annettendo il nord europeo, non il contrario.
L’Occidente si sofferma spesso a domandarsi come mai si sia estinto l’Antico Egitto, come abbiano potuto sparire gli Etruschi, come abbiano fatto a disintegrarsi di colpo gli Aztechi, i Maya. Domande inutili tanto quanto quelle che fra poco rivolgeranno a se stessi gli storici chiedendosi come ha fatto a sparire di colpo la cultura europea. Non sono le conquiste degli eserciti nemici, perché queste non riescono mai di per sé, neanche con gli stermini di massa, a distruggere una civiltà. È la perdita di senso che la conquista inesorabilmente comporta, a far sparire all’improvviso anche la più forte delle civiltà. È quello che sta succedendo all’Unione Europea.
L’eliminazione delle differenze, con l’omologazione, decisa a tavolino ma di fatto impossibile, di popoli totalmente diversi, sta già portando con rapido vortice al baratro del non-senso e si concluderà con la fine della cultura occidentale nella sua forma autentica - quella europea - e l’installazione di una cultura tribale di 1500 anni fa, quella islamica, che non può cambiare perché è fondata sul Corano, ossia sulle prescrizioni magiche (riprese da quelle dettate da Mosè nei primi cinque libri dell’Antico Testamento) che si ritrovano più o meno simili nelle tradizioni mitiche di origine di ogni popolo. Gesù aveva cancellato tutte quelle dell’Antico Testamento semplicemente agendo senza tenerne conto. È l’unica maniera intelligente per non discutere all’infinito di cose che i popoli amano conservare, malgrado spesso non le conoscano affatto e comunque non le mettano in atto. Per i musulmani non è così perché la loro cultura è “stare fermi”, o meglio: conquistare e possedere il mondo tenendo ferma la religione.
La fine della cultura europea sarà la fine del Cristianesimo come religione, che si terrà contento delle sue tradizioni e delle sue opere di carità, finalmente libero da quella Figura inspiegabile, tanto facile da predicare ma quasi impossibile da capire e da imitare che è Gesù di Nazaret. Aver ridotto il Cristianesimo alle opere di bene, è l’operazione più banale e più ottusa che la Chiesa odierna abbia compiuto; una operazione che non ha nulla a che fare con la religione, ma che ha così concesso il massimo spazio a una religione che non finge di non essere religione, ma anzi sottolinea il suo essere esclusivamente religione: l’Islamismo».
(Dal saggio Contro l’Europa pubblicato nel 1997, qui citato esclusivamente come prova che i pensieri e gli scopi dei politici e dei governanti possono essere facilmente previsti, e soltanto allora combattuti.) Ida Magli.

sabato 4 agosto 2007

Padova, i musulmani vogliono il venerdì libero. Di questo passo che cosa vorranno ancora?

L’associazione islamica chiede alle aziende di concedere ai lavoratori almeno quattro ore libere per pregare e riposarsi come impone il Corano
Pare che alla Triplice manchi un venerdì. Già, Cgil, Cisl e Uil presto potrebbero fare i conti con le nuove istanze dei lavoratori di fede islamica che, al venerdì, vorrebbero dedicare più tempo alla preghiera, come impone loro il Corano. Quel venerdì che, a quanto è dato sapere, al momento non è mai rientrato nelle trattative contrattuali portate avanti da Epifani, Bonanni e Angeletti. A ricordare loro questa esigenza hanno provveduto i musulmani di Padova, felici per essere vicini al traguardo della realizzazione di altre tre moschee in provincia previste entro Natale(a Cadoneghe, Saletto e Vigodarzere), ma un po’ tristi per non vedere riconosciuto il proprio giorno sacro.«Stiamo iniziando una trattativa - ha dichiarato al Gazzettino Omar Osman, presidente della Lega africana islamica di Padova - con alcune grandi imprese della zona industriale per chiedere la possibilità che i nostri fratelli impiegati in quelle aziende, durante il nostro giorno sacro, il venerdì, possano riposare e pregare, almeno per quattro ore».Tenuto conto dei ritmi di lavoro delle fabbriche venete, oltre che della necessità che alcune commesse vengano consegnate al cliente entro scadenze brucianti, è facile immaginare che queste istanze non abbiano grandissime possibilità di essere accolte. Nonostante le proposte alternative formulate da Osman nella versione di sindacalista: «Il tempo potrebbe essere recuperato negli altri giorni - spiega - magari aggiungendo un’ora ai turni lavorativi settimanali. Alcuni fedeli hanno già posto questa domanda ai loro datori di lavoro e adesso stiamo vedendo se è praticabile la strada di una raccolta firme attraverso la quale estendere questa iniziativa alle associazioni di categoria a livello nazionale».Non è una boutade di mezza estate, è una proposta più che concreta. Tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, i musulmani praticanti hanno superato le 50 mila unità, mentre le moschee o, comunque, le strutture usate per incontri di preghiera, sono 120. Non è che i musulmani, in caso di sciopero mirato, possano mettere in ginocchio l’economia del Nordest, però si comincia a parlare di numeri significativi. A Padova e a Treviso, in particolare, la loro presenza è particolarmente diffusa nelle piccole e medie industrie.In attesa di un pronunciamento ufficiale alla prossima trattativa contrattuale di Cgil, Cisl e Uil, i musulmani padovani annunciano di essere molto vicini alla realizzazione di tre nuove moschee, tipo tensostrutture, di 200 metri quadri l’una. «Non chiediamo finanziamenti pubblici», concede Osman, salvo poi scivolare in una provocazione che nemmeno gli estremisti del relativismo riuscirebbero a digerire, e cioè l’istituzione di un non meglio precisato «tribunale amministrativo islamico-italiano». Messa giù così, il venerdì che manca alla Triplice resterà nel libro dei sogni (islamici) ancora per un bel po’.
il Giornale

Imam assolto, giudici contro il ministero della Giustizia

Tre ultrà dell’Islam, tre militanti a tempo pieno della moschea di Varese, culla delle fazioni più radicali della galassia musulmana in Italia. Se fossero anche terroristi non lo si saprà mai. Sono stati liberati il 24 maggio scorso dopo essere stati assolti con formula piena. E nelle motivazioni - depositate ieri - della sentenza che li assolve, si indica chiaramente perché non si è potuto stringere il cerchio: perché la rogatoria internazionale che doveva servire a fare luce sulla cellula di Varese si è addormentata negli uffici ministeriali. I giudici italiani sono stati avvisati dell'udienza fissata in Marocco due giorni dopo che l'udienza si era tenuta. Tardi per condurre qualunque interrogatorio.Gli imputati del processo per terrorismo internazionale davanti alla Corte d'assise di Milano erano l'imam della moschea varesina, Abelmajid Zergout,e i suoi collaboratori Abdelillah El Kaflaoui, Mohamed Raouiane. Tutti marocchini, tutti appartenenti al Gruppo Islamico Combattente. La sentenza che pure li ha assolti non è tenera nei loro confronti: «Si può parlare di una accordo tra persone che cercano di sfuggire ai pedinamenti della polizia; che forniscono giustificazioni scarsamente plausibili; che mostrano una chiara adesione alla ideologia islamica fondamentalistica; che raccolgono denaro per la causa comune; che esaltano la lotta contro gli infedeli». Per condannarli, però, sarebbe servito qualcosa di più: l'interrogatorio di una serie di testimoni in Marocco tra cui alcuni agenti di polizia. Ed è qui che la cosa si fa quasi grottesca.Nell'aula del processo ai tre estremisti, il pm Elio Ramondini chiede che venga avviata la rogatoria internazionale. Il 17 luglio dell’anno scorso, la Corte d'assise invia la rogatoria al nostro ministero della Giustizia. Per cinque mesi non accade nulla. Il 2 dicembre, mentre il ministero continua a tacere, l'Interpol comunica al presidente della Corte d'assise che l'udienza in Marocco si terrà il 16 dicembre successivo. La Corte d'assise, in uno sprazzo di formalismo, infila la lettera dell'Interpol in un cassetto: perché le rogatorie devono essere gestite dalla magistratura e non dalla polizia. Serve quindi una comunicazione ufficiale del ministero della Giustizia. Che arriva alla Corte d'assise: ma solo il 18 dicembre quando l'udienza in Marocco si è già tenuta da due giorni. Cosa sia successo a Rabat quel giorno non lo sa nessuno, visto che a Milano nessuno era stato avvisato. Il 1 febbraio il presidente della Corte d'assise Luigi Cerqua chiede al ministero di sapere qualcosa sull’esito dell'udienza. Da Roma nessuna risposta.Passano altri dieci giorni senza che nessuno si faccia vivo. E a quel punto il presidente della Corte d'assise dichiara che si è già atteso abbastanza, che la Costituzione impone una ragionevole durata dei processi e che i tre imputati - in cella ormai da oltre due anni - non possono pagare le colpe delle lentezze della giustizia. Processo chiuso, si va alle arringhe e alla requisitoria del pm, che occupano altri due mesi. Da Roma, intanto, nessuna risposta. Il 28 maggio la Corte assolve tutti gli imputati «perché il fatto non sussiste». E la nostra rogatoria, si chiedono ancora adesso in Procura, che fine ha fatto?.
il Giornale

venerdì 3 agosto 2007

Botte alla figlia «poco musulmana»: assolti

È stata picchiata e legata al letto da mamma, papà e fratello che volevano punirla «per la sua frequentazione di un amico e più in generale per il suo stile di vita, non conforme alla loro cultura».
Ma i tre, di fede islamica e di origine magrebina, sono stati assolti dalla Cassazione, malgrado il ricorso fatto della Procura di Bologna che chiedeva la conferma delle condanne per sequestro di persona e maltrattamenti pronunciate in primo grado.
I supremi giudici hanno condiviso la tesi della Corte d'Appello di Bologna del 26 settembre 2006, che aveva assolto i tre picchiatori: la ragazza era stata legata per il suo bene, avendo minacciato di suicidarsi per paura delle botte. Inoltre i maltrattamenti non erano da ritenersi abituali, essendo accaduti solo tre volte e, per di più, «motivati dai comportamenti della figlia, ritenuti scorretti e quindi non esprimenti il necessario requisito di volontà di sopraffazione e disprezzo». Di fatto cadono le accuse di sequestro e di violenze.
La prima perché «dall'istruttoria di primo grado era emerso con certezza che Fatima, terrorizzata dalle possibili ritorsioni dei familiari perché non si era recata al lavoro incontrandosi con un uomo, aveva minacciato di suicidarsi». I genitori, secondo i supremi giudici, erano stati costretti a legare la figlia per evitare che commettesse atti di autolesionismo. Per quanto riguarda il reato di maltrattamenti inoltre «non susssiste la piena abitualità delle condotte violente», in modo particolare quella del padre che, in maniera provata, aveva picchiato Fatima in «tre soli episodi nell'arco della sua vita».
Senza successo dunque il ricorso inoltrato alla Corte di Cassazione dal procuratore generale di Bologna all'indomani dell'assoluzione dei tre islamici in Corte d'Appello. Una sentenza pronunciata nonostante Fatim a «fosse stata segregata e liberata solo per essere poi brutalmente picchiata dai congiunti - ha sottolineato il Pg Enrico Di Nicola - che la volevano punire per la frequentazione di un amico e più in generale per il suo stile di vita, non conforme alla loro cultura». «Episodi come questo non fanno che confermare la necessità di una rapida approvazione della legge contro la violenza sulle donne e per i reati connessi all'orientamento sessuale», è stato il commento del ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini, che si dice «ferita e colpita» dalla sentenza della Cassazione.
«La giustizia italiana è forse alleata dell'islam radicale? - si chiede Isabella Bertolini, vicepresidente dei deputati di Forza Italia - La Suprema Corte di Cassazione ha scritto oggi una pagina buia nella storia del diritto e della giustizia del nostro Paese».
l'Avvenire

mercoledì 1 agosto 2007

La droga finanzia i terroristi islamici

Dagli spinelli alle bombe un'unica scia di fumo. I gruppi salafiti, come quelli responsabili delle stragi di Madrid, si finanziano vendendo hashish. La criminalità internazionale sta investendo fortemente in Africa sia come terreno di coltivazione, sia impiantando laboratori di trasformazione con manodopera a basso costo

Si fa presto a chiamarla "droga leggera". Quando invece è ormai assurta a moneta di scambio nello sfruttamento della prostituzione ed è fonte primaria nel finanziamento del terrorismo internazionale. Dentro a uno spinello, a una canna, infatti, c'è tutto questo.
Perché dal campesino boliviano allo spacciatore sotto casa la filiera è scandita da accordi che coinvolgono la mafia siciliana e i governanti corrotti dei Paesi più poveri, i boss della 'ndragheta calabrese e i gregari di al-Qaeda. Non è un caso che con i proventi dello spaccio di hashish siano stati finanziati gli attentati dell'11 marzo di Madrid: 200 morti nelle stragi alle stazioni.
Ma tutto questo l'adolescente che va a comprare un grammo di "fumo" dal ragazzetto sveglio del quartiere probabilmente non lo sa. E spesso non lo sa neanche il singolo spacciatore, ultimo anello di un sistema a compartimenti stagni. In fondo sarebbe uno svago innocente, stando a quel che assicurano veline e imprenditori (ricorda nulla "Vallettopoli"?) sorpresi in discoteca a tirare di coca nei privè dei locali alla moda: «Sono affari privati e poi non c'è nulla di male», hanno detto più volte in un progressivo allentamento della percezione della responsabilità personale e della pericolosità sociale di certe pratiche.
Chissà cosa direbbero se sapessero che il nuovo orizzonte dei narcos guarda verso l'Africa, dove i narcotrafficanti sudamericani stanno impiantando piantagioni di cannabis e laboratori clandestini, perché i contadini neri costano poco, lavorano sodo e stanno zitti.
«In tale contesto - è scritto in un dossier del governo - si registra il progressivo insediamento delle organizzazioni colombiane nei principali Paesi occidentali africani, primo fra tutti il Senegal dove attraverso società di import-export e di pesca, opportunamente avviate, provvedono al recupero (in mare e a terra), allo stoccaggio e al trasferimento di questa sostanza sul mercato europeo di consumo». Oltre a Senegal, Gambia, Ghana, Niger ia, "l'erba da sballo" cresce copiosa pure in Marocco. Nonostante un significativo calo rispetto al 2004 (-37%) dovuto alle politiche antidroga promosse dalla casa reale, nel regno degli Alawiti viene prodotta la quantità maggiore di hashish che alimenta, per l'80%, il mercato illecito europeo. È lungo questa rotta che si fanno strani incontri.
«Sempre più spesso - racconta un investigatore impegnato in operazioni sotto copertura - quando cerchiamo i boss della droga troviamo i terminali di una qualche cellula islamica». Lo conferma Tlili Lazhar, l'ultimo dei pochi pentiti della jihad di casa nostra: «Per autofinanziarci spacciavamo droga e i soldi ci servivano per l'organizzazione».
E per organizzazione si intende il Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, sigla magrebina del franchising firmato al-Qaeda. La storia di Lahzar segue il copione di molte altre vite a rischio. L'emigrazione dalla Tunisia, i giorni di duro lavoro come bracciante a Mazara del Vallo, poi operaio a Siena, infine spacciatore di droga in Lombardia, tra Legnano, Milano e Buccinasco. «Il cosiddetto spaccio di droga - ha scritto Loretta Napoleoni, consulente delle Nazioni Unite e tra i massimi esperti mondiali nello studio del finanziamento al terrorismo - proprio recentemente ha visto prevalere l'etnia magrebina, soprattutto, per quanto riguarda il primo livello di consumo, quello della cosiddetta "erba", anche se ormai il fenomeno si sta fisiologicamente dilatando e potrebbe raggiungere presto il controllo del più interessante, in termini economici, smercio della cocaina».
Le stime dell'Unodc (l'agenzia Onu sulle droghe e la criminalità) indicano in 1.070 tonnellate la produzione totale marocchina del 2005, proveniente da 72.500 ettari di coltivazioni di cannabis concentrate, soprattutto, nella zona del Rif (un'area montuosa del Nord). La maggior parte dell'hashish marocchino viene fatto transitare in Spagna (297 tonnellate sequestrate al 30 giugno del 2006) attra verso lo stretto di Gibilterra dalle stesse organizzazioni locali e lì stoccato in enormi quantitativi. L'ultimo episodio è del 19 luglio: la polizia di Milano ha sequestrato un carico di 440 chili di hashish partito dal Marocco e diretto in Italia.
Il Tir, intercettato in Spagna, è stato pedinato fino all'arrivo in Lombardia. Alla partenza era stato caricato con 1.800 chili di stupefacente, ma a Milano ne sono arrivati 440. Per ogni grammo consumato c'è una famiglia povera che a un futuro di coltivazioni "normali" preferisce, e qualche volta non gli viene concessa altra scelta, il guadagno immediato dalle produzioni fuorilegge, tanto più se queste contribuiscono alla causa di una qualche fazione islamica.
Sono moltissimi i Paesi, tra quelli sudamericani, africani ed asiatici dove la pianta cresce spontaneamente. Una stima della produzione globale dei due più comuni derivati della cannabis (marijuana e hashish) è stata tentata dall'Unodc sulla base delle piantagioni individuate e dei sequestri effettuati: a 45.000 mila tonnellate corrisponde la produzione di marijuana e 7.500 tonnellate quella dell'hashish. Mettendo in fila i dati delle forze dell'ordine se ne ricava che nel corso del 2006 il mercato italiano sia stato alimentato prevalentemente dalla cocaina prodotta in Colombia, dall'eroina afgana, dalle droghe sintetiche provenienti per lo più dall'Olanda, dall'hashish marocchino e dalla marijuana albanese.Dal Paese delle Aquile una volta arrivavano gommoni carichi di clandestini e sigarette. Non più.
Perché mafie italiane ed albanesi grazie alla droga hanno siglato un contratto che consente a entrambe di fare affari senza invasioni di campo. Nel 2006 sono state sequestrate 5,4 tonnellate di marijuana, in gran parte "Made in Albania". Una volta giunta in Italia, principalmente sulle coste salentine con il supporto delle organizzazioni criminali locali, la cannabis albanese viene recapitata sull'intero territorio nazionale attraverso i grossisti siciliani e calabresi.
È in questo caso che lo spinello alimenta soprattutto il mercato dei nuovi schiavi. Il patto tra cosche schipetare, Cosa nostra e 'ndrangheta è collaudato: «I clan italiani - spiegano dalla Direzione investigativa antimafia - ottengono la droga che poi rivenderanno "al dettaglio", gli albanesi in cambio hanno il permesso di gestire lo sfruttamento delle migliaia di donne dell'est". Se volete chiamatela ancora "droga leggera".

L’Avvenire