venerdì 25 gennaio 2008

Romano Prodi. Storia di un italiano piccolo piccolo

Lo abbiamo visto a Montecitorio e a Palazzo Madama pietire fiducie che sapeva di non meritare. Fuori dai Palazzi schivare la gente che lo fischiava ed accostarsi con gli occhi socchiusi, compiacente, a giornalisti-tappetini che lo blandivano. Gli abbiamo sentito dire banalità incommensurabili, con aria ispirata, al punto di suscitare il riso o il compatimento.
In ogni suo atteggiamento abbiamo colto i tratti di un furbo levantino sul punto di vendicarsi di qualcuno, nemico dichiarato o amico sospettato di tradimento: magari non è così, ma questa è l’impressione che dà. Comunque mai la sua voce, il suo incerto eloquio o i suoi gesti ci sono apparsi quelli di uno che voleva mostrarsi gradito e gradevole.
E ci siamo chiesti: ma da quale anfratto della complessa psicologia degli italiani è venuto fuori Prodi? A quale “anima” del Paese è riconducibile il suo “spirito animale” che lo guida nel dividere e mai nel tentare di unire? Un uomo capace di scatenare risse tribali in una società fragile preda degli umori più volubili o di farsi sopraffare tanto per il gusto di dimostrare la sua testardaggine, non sarebbe un problema se non facesse il presidente del Consiglio. Per nostra disgrazia è un problema di dimensioni gigantesche dal momento che non si è mai reso conto quanto la sua impopolarità renda insopportabile la vita pubblica.
Questo dato non può essere sottaciuto. E’ un dato pre-politico, al quale Gustav Le Bon o Scipio Sighele, studiosi della dimensione pubblica delle personalità, conferiscono un’importanza tutt’altro che marginale nel raccontare le fortune dei potenti o dei semplici rappresentati del popolo. Prodi suscita entusiasmi cimiteriali perché esprime un’Italia dimessa, priva di grandezza, di generosità, di ambizioni.
Vivacchia come può, per quanto può. A guisa di quegli emarginati metropolitani che non si domandano mai se hanno un destino oppure no: punta a durare. Ogni giorno che passa non è un giorno perduto, ma guadagnato. E si avvia così alla gloria dei sopravvissuti, come tanti altri italiani che hanno avuto la ventura di salire i gradini del potere e goderne senza apprezzarlo.
La grande scuola di politologia napoletana, applicata alla miseria, direbbe di Prodi che il suo massimo piacere è quello di “chiangere e fottere”. L’interpretazione è variabile. Ma questo è il dato del suo carattere politico.E per quanti sforzi si facciano al fine di nobilitarlo, resta quello che è: un politico senza vocazione. E niente c’è di peggio che essere governati da una figura di tal genere. Infatti, cooptato per disperazione da una classe politica orfana di leader, dal 1996 immagina che gestire la cosa pubblica equivalga a prendersela: Palazzo Chigi non è la sede del governo, ma un’agenzia di collocamento di amici (possibilmente fidati) che devono gestire il patrimonio dello Stato sotto l’abile regia del presidente del Consiglio. Come quegli italiani che mettendo piede in una prestigiosa dimora sono attratti più dalla cantina e dalla dispensa che dai preziosi arredi.
Prodi attraversa il deserto della politica italiana senza neppure darsi l’aria di chi si finge salvatore della Patria: salvare se stesso o affermare il suo smisurato ego è tutto. Non si spiegherebbe altrimenti l’esaltazione che lo pervade quando sta per cadere, né l’incapacità di stabilire un rapporto di simpatia con i suoi governati. E, soprattutto, non ammette che lo si trascuri.Quando lo defenestrarono da presidente del Consiglio, esattamente dieci anni fa, pretese la presidenza della Commissione europea e alla scadenza del mandato, non ha fatto altro che preparare le condizioni per tornare a governare, inventando (anzi facendosi inventare) un partito che non è mai nato sotto la sua guida.
Insomma, un leader senza popolo, un generale senza truppe. Fastidioso il popolo, fastidiose le truppe. Vuoi mettere: piangere e fottere, come direbbero tutti gli altri italiani, è molto meglio. Almeno fino a quando popolo e generali (nel senso di partitocrati) decretano che il suo tempo è scaduto. E allora, a Prodi non resterà che l’ultimo treno per Bologna.
fonte: Liberal

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