venerdì 9 novembre 2007

Non tutto ciò che è legale è morale

"Il dialogo non è un assoluto che sostituisce la verità”.
Affermazione che dovrebbe essere autoevidente, ma drammaticamente non è: nella cultura laica, ma persino in quella ecumenica e interreligiosa. Così che dire: “Essere fedeli alla propria carta d’identità religiosa è il miglior passaporto per entrare nel territorio religioso altrui” diventa un sasso nello stagno di un mondo contemporaneo dominato da “agnosticismo religioso e relativismo etico”.
A lanciarlo non un provocatore qualsiasi, bensì l’ arcivescovo Angelo Amato, segretario della congregazione per la Dottrina per la fede, il numero due del cardinaleWilliam Joseph Levada. Nemmeno la sponda da cui lo lancia è un luogo qualunque: è la prima pagina di ieri dell’Osservatore Romano.
Il dialogo è pratica relativa per eccellenza, richiede interlocutori diversi, che siano però consapevoli della propria “carta d’identità”. Tanto più in una società dove “prevale oggi il pensiero debole, secondo cui tutto sarebbe relativo e pertanto non ci sarebbe una verità delle cose”. Lungi dall’essere questione solo ecclesiale, parlare di un dialogo da attuare con le armi di “verità, carità e libertà” è insomma una sfida culturale che entra diritta, e di diritto, nella battaglia delle idee. Ed è proprio questo che accetta di fare, nell’intervista realizzata ieri da Giampaolo Mattei per il quotidiano della Santa Sede, questo salesiano pugliese e riservato, solido teologo di 69 anni che nel 2002 fu chiamato a sostituire un altro figlio di don Bosco, il cardinale Tarcisio Bertone.
Monsignor Amato risponde a domande cruciali sulle ragioni e gli strumenti del dialogo. Una parola, non teme di lasciar intendere, a volte sopravvalutata, soprattutto nella chiesa. A proposito del dialogo ecumenico, dice ad esempio che per affrontarlo “non si può essere dei dilettanti”. Un colpo di sciabola ai paladini di una visione ecclesiale che, sulle orme del Concilio, ha spesso usato l’aggettivo “ecumenico” per mettere tra parentesi l’aggettivo “cattolico”.
Ma è spiegando come dialogare con la società laica (Amato più esplicitamente parla di uomo “nichilista” e “relativista postmoderno”) che il segretario della congregazione per la Dottrina della fede affronta senza perifrasi alcuni temi decisivi. Ad esempio, quando afferma che in un mondo dominato dal relativismo e che non permette di fare riferimento a norme morali, “di solito si ritiene etico quello che è legale, ad esempio aborto, divorzio”.
Ovviamente dovrebbe essere viceversa; ma non solo: il giudizio di Amato va a interrogare il cuore della cultura laicista, e non per niente un argomento simile è stato molte volte evocato nel dibattito sulle questioni bioetiche.
L’arcivescovo smaschera una pretesa tanto subdola quanto inaccettabile, quella che vorrebbe tracciare per “via legale” la trasformazione in “diritto” di qualcosa che diritto non è: esiste un “diritto” a divorziare, o peggio ad abortire? Dire che ciò che viene sancito da una legge possieda di per sé un “valore etico”, ragiona Amato, equivale nei fatti a liquidare il valore etico opposto.
E’ la storia dei passati decenni, e non è detto che non possa essere messa in discussione. Se ne può dialogare, senza rinunciare alla verità.
Interessanti sono anche le affermazioni a proposito del dialogo con le altre religioni (l’incontro tra Benedetto XVI e il re saudita Abdullah non viene citato, ma evidentemente non è neppure assente). Amato rivendica innanzitutto che vi sia “pari dignità personale degli interlocutori e non dei contenuti”. Si sente profumo di “Dominus Iesus”, e non è un caso: visto che il segretario è stato tra i principali estensori della Dichiarazione firmata da Joseph Ratzinger. C’è consapevolezza che “nell’odierna società multireligiosa si afferma sempre più un pensiero forte, promosso dalle diverse convinzioni religiose”, e Amato saluta positivamente il fenomeno. Ma con sicurezza critica anche “una certa teologia” secondo cui “tutte le religioni sono altrettante vie alla salvezza”. Una visione relativista del dialogo che non è certo quella di Benedetto XVI. E neanche, s’intuisce, del suo autorevole giornale.
il Foglio

Nessun commento: