sabato 26 gennaio 2008

Immigrazione. Il crimine importato ci costa 7 miliardi

Alla fine lo Stato italiano ci ha rimesso altri 7 miliardi di euro. Non si tratta di una «manovra» correttiva, un colpo d’ala del defunto governo Prodi. La cifra da capogiro si riferisce al costo medio totale per la collettività della criminalità straniera in Italia ed è relativa al solo 2007.
Dato diffuso dalla Fondazione Ismu attraverso uno studio che valuta costi e benefici delle politiche di reazione e prevenzione del crimine d’importazione straniera. «In realtà è soltanto una stima della spesa pubblica affrontata negli ultimi due anni - precisa Andrea Di Nicola, docente di Criminologia all’Università di Trento e curatore della ricerca -. Partiamo da un presupposto molto semplice: le condotte di reato arrecano alla società diverse voci di costo, a seconda della gravità e della frequenza».
Ecco le variabili prese in esame: i singoli costi reato per reato, costi di anticipazione del reato (ad esempio, gli investimenti privati per dispostitivi d’allarme), i costi conseguenti al reato, divisi tra pecuniari, biologici e morali, nonché i «lost output» (rispetto al mancato reddito in conseguenza della violenza subita). Infine sono stati calcolati i costi delle attività inquirenti e giudicanti, quindi le spese processuali e per l’eventuale detenzione dei responsabili.
Risultato, a incidere sulle casse italiane già in difficoltà sono soprattutto le violenze sessuali (oltre 2,7 miliardi di spesa), le lesioni dolose (per più di 2 miliardi), scippi, borseggi, furti d’auto (2,4 miliardi in totale). Seguono nella graduatoria delle zavorre le rapine in banche o in uffici postali (quasi 10,5 milioni di euro). Tutte «specialità» tipiche della criminalità di marca straniera. Un capitolo a parte, da sottolineare, è come la probabilità di identificazione dei colpevoli varia dal 52-54 per cento nel caso di lesioni personali e stupri scendendo fino al 14 per cento per i furti. Intanto un denunciato su quattro, un condannato su cinque, e più di un detenuto su tre è straniero. In Lombardia, poi, dietro le sbarre praticamente la metà (47,5%) non sono italiani. «Restano dentro, in media, meno di un mese. Gli istituti di pena somigliano così a lussuosi alberghi con la porta girevole, al prezzo di 140 euro al giorno», aggiunge Di Nicola. E noi paghiamo.
Il ministro dell’Interno Giuliano Amato a giugno commentava così il dossier nazionale sulla delinquenza - «Non dobbiamo fare un uso emotivo di dati che possano portare a ritenere fondata l’equazione “immigrato uguale a criminale” -, giungendo comunque alla conclusione: «Semmai la criminalità si concentra nel mondo dell’irregolarità». Allora si spiegano altre cifre del nuovo Rapporto Ismu. Cioè quelle che riportano il numero degli immigrati presenti sul territorio. Oggi fanno circa 4 milioni, il 6 per cento della popolazione, 320mila in più con una crescita di 8,7 punti in un anno e quasi del 20 nel biennio prodiano ’06-07. «Boom di regolari», dicono gli esperti, «effetto della regolarizzazione ottenuta con i decreti flussi 2006, ma non ancora tradotto in iscrizioni anagrafiche». Sanatoria di fatto targata Amato&Ferrero che ha fatto crollare la quota di clandestini a 350mila unità, -46,3 per cento: minimo storico.
L’altra faccia della moneta mostra però l’incremento al 103% di quei 700mila stranieri (non residenti) ritrovatisi nella lista dei permessi concessi dal Viminale. A beneficiarne, con tassi a doppia cifra, i soliti noti: romeni (+14,8%), ucraini (+12,2%), serbi e moldavi (addirittura +18%). Amara considerazione finale: «Permane l’immagine di un paese dove è facile entrare illegalmente; e lo è altrettanto soggiornarvi».
fonte: Il Giornale

venerdì 25 gennaio 2008

Romano Prodi. Storia di un italiano piccolo piccolo

Lo abbiamo visto a Montecitorio e a Palazzo Madama pietire fiducie che sapeva di non meritare. Fuori dai Palazzi schivare la gente che lo fischiava ed accostarsi con gli occhi socchiusi, compiacente, a giornalisti-tappetini che lo blandivano. Gli abbiamo sentito dire banalità incommensurabili, con aria ispirata, al punto di suscitare il riso o il compatimento.
In ogni suo atteggiamento abbiamo colto i tratti di un furbo levantino sul punto di vendicarsi di qualcuno, nemico dichiarato o amico sospettato di tradimento: magari non è così, ma questa è l’impressione che dà. Comunque mai la sua voce, il suo incerto eloquio o i suoi gesti ci sono apparsi quelli di uno che voleva mostrarsi gradito e gradevole.
E ci siamo chiesti: ma da quale anfratto della complessa psicologia degli italiani è venuto fuori Prodi? A quale “anima” del Paese è riconducibile il suo “spirito animale” che lo guida nel dividere e mai nel tentare di unire? Un uomo capace di scatenare risse tribali in una società fragile preda degli umori più volubili o di farsi sopraffare tanto per il gusto di dimostrare la sua testardaggine, non sarebbe un problema se non facesse il presidente del Consiglio. Per nostra disgrazia è un problema di dimensioni gigantesche dal momento che non si è mai reso conto quanto la sua impopolarità renda insopportabile la vita pubblica.
Questo dato non può essere sottaciuto. E’ un dato pre-politico, al quale Gustav Le Bon o Scipio Sighele, studiosi della dimensione pubblica delle personalità, conferiscono un’importanza tutt’altro che marginale nel raccontare le fortune dei potenti o dei semplici rappresentati del popolo. Prodi suscita entusiasmi cimiteriali perché esprime un’Italia dimessa, priva di grandezza, di generosità, di ambizioni.
Vivacchia come può, per quanto può. A guisa di quegli emarginati metropolitani che non si domandano mai se hanno un destino oppure no: punta a durare. Ogni giorno che passa non è un giorno perduto, ma guadagnato. E si avvia così alla gloria dei sopravvissuti, come tanti altri italiani che hanno avuto la ventura di salire i gradini del potere e goderne senza apprezzarlo.
La grande scuola di politologia napoletana, applicata alla miseria, direbbe di Prodi che il suo massimo piacere è quello di “chiangere e fottere”. L’interpretazione è variabile. Ma questo è il dato del suo carattere politico.E per quanti sforzi si facciano al fine di nobilitarlo, resta quello che è: un politico senza vocazione. E niente c’è di peggio che essere governati da una figura di tal genere. Infatti, cooptato per disperazione da una classe politica orfana di leader, dal 1996 immagina che gestire la cosa pubblica equivalga a prendersela: Palazzo Chigi non è la sede del governo, ma un’agenzia di collocamento di amici (possibilmente fidati) che devono gestire il patrimonio dello Stato sotto l’abile regia del presidente del Consiglio. Come quegli italiani che mettendo piede in una prestigiosa dimora sono attratti più dalla cantina e dalla dispensa che dai preziosi arredi.
Prodi attraversa il deserto della politica italiana senza neppure darsi l’aria di chi si finge salvatore della Patria: salvare se stesso o affermare il suo smisurato ego è tutto. Non si spiegherebbe altrimenti l’esaltazione che lo pervade quando sta per cadere, né l’incapacità di stabilire un rapporto di simpatia con i suoi governati. E, soprattutto, non ammette che lo si trascuri.Quando lo defenestrarono da presidente del Consiglio, esattamente dieci anni fa, pretese la presidenza della Commissione europea e alla scadenza del mandato, non ha fatto altro che preparare le condizioni per tornare a governare, inventando (anzi facendosi inventare) un partito che non è mai nato sotto la sua guida.
Insomma, un leader senza popolo, un generale senza truppe. Fastidioso il popolo, fastidiose le truppe. Vuoi mettere: piangere e fottere, come direbbero tutti gli altri italiani, è molto meglio. Almeno fino a quando popolo e generali (nel senso di partitocrati) decretano che il suo tempo è scaduto. E allora, a Prodi non resterà che l’ultimo treno per Bologna.
fonte: Liberal

mercoledì 23 gennaio 2008

A Bologna maxi moschea per pochi islamici

Lo sa il sindaco Cofferati che si appresta a regalare la mega moschea di Bologna a un gruppo islamico che, oltre ad essere estremista, conta in tutto solo 21 associati sugli 11.615 musulmani residenti nel Comune?
Forse riuscirà comunque a farla costruire, a dispetto dell’opposizione della maggioranza dei cittadini e del pesante monito della Curia che ha qualificato l’insistenza dell’amministrazione comunale come un «peccato mortale» e invocato una «moratoria». Ma che almeno si sappia la verità su una vicenda che non fa il bene né dei musulmani né soprattutto dei bolognesi.
Basta andare nel sito ufficiale del Comune per rendersene conto. Al 31 dicembre del 2006 risulta che il totale degli immigrati a Bologna è di 30.319, di cui quelli originari di paesi a prevalenza islamica sono 11.615.
Se si considera che, sulla base delle stime rilevate dalle inchieste sociologiche e giornalistiche più serie, la percentuale dei musulmani che frequentano abitualmente le moschee oscilla tra il 5% e il 7%, questo dato a Bologna oscilla tra i 580 e gli 813 fedeli. Per un altro verso nel verbale dell’assemblea straordinaria svoltasi il 3 maggio 2006 nella moschea di via Pallavicini 13, redatto dal notaio Paolo Tavalazzi, per modificare lo Statuto del «Centro di cultura islamica di Bologna» al fine di permetterne la registrazione come Onlus, si legge: «Sono presenti, in proprio o per deleghe scritte, acquisite agli atti sociali, n. 16 associati, su un totale di n. 21 associati».
Si tratta di un documento ufficiale dello stesso Centro di cultura islamica che «aderisce all’Ucoii» (articolo 1 dello Statuto). Viceversa nel sito della Provincia di Bologna si stima che gli associati al Centro di cultura islamica sarebbero 50. Comunque sia, stiamo parlando di un totale di associati che corrisponde allo 0, 2% o lo 0, 4% dei musulmani residenti a Bologna.
Se invece consideriamo l’effettiva necessità di una mega moschea a Bologna, prendiamo atto dell’esistenza di 6 luoghi di culto islamici situati in via Pallavicini, via Libia, via Stalingrado, via Terracini, via Zago e in zona Barca.
La moschea in via Pallavicini può accogliere 400 fedeli (calcolando lo spazio di un metro quadro per ogni fedele secondo la stima fatta dal Comune). Gli altri 5 luoghi di culto islamici sono più piccoli e in condizioni disagevoli. Ebbene l’estensione della mega moschea che si vorrebbe costruire alla periferia della città, in via Fiorini, è di 2.500-3.000 mq di superficie utile netta su una superficie territoriale di 19.000 mq.
La stima della capienza è tra i 1.200 e i 1.500 fedeli. Quindi da sola supererebbe largamente la necessità dell’insieme dei musulmani praticanti di Bologna. L’ostinazione di Cofferati a costruire la mega moschea emerge dal dato sulla permuta che è attualmente al vaglio della Giunta e che potrebbe essere deliberata dall’Assemblea comunale entro la fine del mese.
La permuta avverrebbe tra un terreno sito in via Felsina, acquistato nel 2000 dall’Associazione Onlus «Al Waqf Al-Islami in Italia», ovvero «Ente di gestione dei beni islamici in Italia», affiliato all’Ucoii, per 180 milioni di lire, circa 90 mila euro. Ebbene la stima realizzata il 7 maggio 2007 dalla Finanziaria Bologna metropolitana, partecipata del Comune, valuta il prezzo del terreno a 1.382.000 euro. In aggiunta si sarebbero riconosciuti al Centro di cultura islamica una cifra di 269.000 euro per i lavori effettuati all’interno della moschea di via Pallavicini. In totale, quindi, il Comune avrebbe corrisposto al Centro islamico la cifra di 1.651.000 euro, circa venti volte il valore originario del terreno oggetto della permuta.
Non solo. Il Comune dopo aver stimato che il terreno originariamente destinato alla mega moschea, con una superficie di 52.000 mq, valeva 3.138.000 euro, si era auto applicato uno sconto del 50% a beneficio del Centro islamico.
Lo scandalo fu bloccato e si è appunto in attesa di una nuova stima. Per tutte queste ragioni, se alla fine la mega moschea sorgerà sarà bene chiarire che è stata voluta da questa amministrazione comunale per regalarla all’Ucoii. Sarà giusto, a quel punto, che quantomeno venga dedicata a Sergio Cofferati.
fonte: Magdi Allam, il Corriere della Sera

sabato 19 gennaio 2008

Arresti, condanne e deportazioni. La Cina stringe il cappio sui Giochi

Gli avevano spiegato che con le Olimpiadi tutto sarebbe cambiato, che avrebbe potuto incontrare i giornalisti, in piena libertà. Yu Changwu, di solito così diffidente ci aveva creduto, e da contadino un po’ all’antica si era regolato di conseguenza.
Da tempo guidava la protesta degli agricoltori nella sua terra, regione settentrionale dello Heilongjiang, per questo ne aveva approfittato per accompagnare lassù un gruppo di giornalisti per spiegare, perchè, insieme ad altri 40mila contadini, aveva firmato un documento che chiedeva il ritorno nelle loro mani della terra coltivata fin lì in modo collettivo, del perchè spettava loro, anche se la legge cinese non tollera nemmeno l’idea della proprietà privata.
Non aveva capito Yu Changwu che se giornalisti stranieri hanno libertà di fare domande a chiunque in Cina, loro, gli intervistati, non hanno invece il diritto di rispondere. Altrimenti il minimo che ti possa capitare è di essere accusato di turbare l’ordine pubblico. Morale: Yu Changwu, è stato assegnato per due anni ai lavori forzati nel centro di detenzione di Jiamusi, dove era rinchiuso da un mese in attesa della sentenza, rigorosamente a porte chiuse. Il reato per cui è stato condannato non è aver guidato la protesta ma aver parlato con i giornalisti. Una volta si diceva domandare è lecito, rispondere è cortesia, la Cina di oggi si è inventata l’intervista post moderna e vagamente dadaista: domandare è lecito, rispondere è reato.
Hu Jia invece era a casa sua, il 27 dicembre scorso, quando una ventina di poliziotti si sono presentati davanti alla porta. Silenziosi, gelidi, sbrigativi si sono limitati a tagliargli tutte le connessioni Internet, i cavi del telefono e ogni contatto con il mondo dopo avergli mostrato un mandato di arresto con l'accusa di «sovvertimento del potere dello Stato». Poi hanno fatto anche di peggio. Hu Jia è blogger e difensore dei diritti dell'uomo, così come Wang Deija, arrestato solo qualche settimana prima di lui: l’hanno chiuso dentro casa con la compagna Zeng Jihyan e hanno buttato via la chiave. Quando i suoi legali, dopo decine di inutili tentativi, sono riusciti a entrare sono stati chiusi dentro pure loro. Domiciliari per tutti. E nelle stesse settimane il giro di vite è stato più duro del solito. Avvocati e attivisti sono stati imprigionati senza processo, uno di loro, Guo Feixiong, è finito in manette per avere pubblicamente denunciato episodi di corruzione tra i funzionari del partito comunista.
Persino un film, Lost in Beijing, presentato al festival del cinema di Berlino è stato messo all’indice dalla censura. E la marcia di avvicinamento ai Giochi di agosto ha visto chiudere quasi mille siti internet, sottoporre a misure di isolamento centinaia di attivisti e contare quasi 50mila scontri di piazza.La Cina è un gigante che ha paura di tutto, dei cellulari, degli sms, dei videomessaggi, dei blog. E qui ad agosto sbarcherà un esercito di contestatori, dagli ecologisti, ai filo tibetani, dai no alla pena di morte a paladini dei diritti civili, che sfrutteranno tutto, dalla rete al mondovisione.
Per questo i servizi segreti cinesi hanno già compilato una lista di organizzazioni straniere, pacifiche o no, da tenere sott’occhio, per questo il ministro della Pubblica sicurezza Zhou Yongkang ha ordinato alla polizia «di colpire sodo qualunque forza ostile possa in qualunque modo turbare i Giochi». Una guerra preventiva che comprende direttive come quella che il governo della provincia orientale dello Shandong ha indirizzato ai dirigenti locali: «Nascondere sempre le verità scomode ed esaltare le notizie positive». Ficcanaso e ribelli avranno quindi dal regime una risposta durissima. E senza nemmeno bisogno di fare domande.
fonte: Il Giornale

mercoledì 16 gennaio 2008

Dalla Commissione Giustizia della Camera avanti tutta con il gender

La commissione Giustizia della Came­ra ha licenziato per l’aula di Monte­citorio il disegno di legge per il con­trasto delle molestie insistenti, che al tem­po stesso introduce nel nostro ordina­mento per la prima volta uno stravolgi­mento della naturale differenza sessuale attraverso il concetto di identità di genere (in inglese detto 'gender').
Dopo aver ter­minato la prassi della raccolta dei pareri, è stato affidato il mandato per l’aula al rela­tore Pino Pisicchio, che è anche presiden­te della commissione Giustizia. «Sorridiamo ma non esultiamo – ha com­mentato il presidente di Arcigay, Aurelio Mancuso – la prova dei fatti sarà in aula». «Ora si proceda in tempi rapidi alla calen­darizzazione », ha insistito Titti De Simone, parlamentare del Prc, con riferimento alla decisione che dovrà prendere la conferen­za dei capigruppo di Montecitorio. Jole Santelli di Fi, invece, ha osservato che in Parlamento «c’era pieno accordo sul fat­to che lo stalking fosse un’emergenza», ma «la maggioranza ha scelto di inserire nel provvedimento una norma controversa, quale quella sull’omofobia e l’identità di genere, che di fatto ha bloccato una pro­posta che poteva già essere legge da mesi». «Le sue argomentazioni progressiste – ha replicato polemicamente il socialista Fran­co Grillini – mascherano una brutale o­mofobia e un razzismo omosessuale».
«Assolutamente sbagliato confondere l’o­mofobia con lo stalking nei confronti del­le donne – ha ribattuto un’altra azzurra I­sabella Bertolini –. La maggioranza di cen­tro- sinistra tenta, per l’ennesima volta, di imporre per via legislativa la parificazione della condizione omosessuale alla ben di­versa realtà degli individui eterosessuali».
Al contrario il ministro delle Pari opportu­nità, Barbara Pollastrini, ha fatto «appello al presidente Fausto Bertinotti e al mini­stro per i Rapporti con il Parlamento Van­nino Chiti, ai presidenti dei gruppi parla­mentari perché questo tema venga consi­derato prioritario nell’agenda dei lavori del­l’aula ». La leghista Carolina Lussana, però, ha confermato la contrarietà alla parte del ddl «che riguarda l’introduzione del reato di omofobia» e ha annunciato una dura contrapposizione in aula.È prevista sull’argomento una riunione dei Teodem. «Alla Camera la maggioranza non ha problemi anche di fronte al nostro voto contrario – ha spiegato Enzo Carra –. De­cisivo è dunque il Senato, per questo dob­biamo coordinarci». «Ognuno si assumerà le proprie respon­sabilita », ha assicurato Paola Binetti, che al Senato votò contro il maxiemendamento sul 'decreto sicurezza' perché introduce­va analoghe norme cosiddette andiscri­minatorie contro le «tendenze sessuali». Un provvedimento sul quale il governo po­se la fiducia. Quel 'decreto sicurezza' è stato poi fatto decadere, e la sinistra radi­cale ha accettato che il nuovo decreto fos­se depurato del tema del 'gender' a con­dizione di un’accelerazione del ddl sullo stalking che appunto nel contestato arti­colo 3 lo introduce.
La norma afferma che è punito con la re­clusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6 mila euro «chi istiga a com­mettere o commette atti di discriminazione» per motivi basati «sull’orientamento sessuale o sulla identità di genere». Inoltre sono previste aggravanti fino alla metà del­la pena per chi commette per tali motiva­zioni reati punibili con pena diversa dal­l’ergastolo.
fonte: Avvenire

sabato 12 gennaio 2008

Con 4 milioni di immigrati OMS lancia allarme meningite in Italia

"Dopo l’allarme lanciato dall’Oms sul rischio che in Italia si diffonda velocemente la meningite da meningococco, a causa della presenza di 4 milioni di immigrati, il ministro Turco non puo’ fare finta di nulla".
Ad affermarlo e’ Isabella Bertolini, vice presidente dei Deputati di Forza Italia. "Sa tempo denunciamo i gravissimi rischi collegati ad un’invasione incontrollata di extracomunitari, spesso portatori di gravi malattie. La sinistra al governo in ossequio al solito buonismo irresponsabile, ha sempre rifiutato di prendere coscienza del problema, favorendo l’ingresso in massa di stranieri irregolari, trascurando in tal modo di difendere adeguatamente la popolazione italiana". "Presentero’ un’interrogazione parlamentare indirizzata al ministero della Salute, Livia Turco, per chiedere quali controlli intenda attivare sulla popolazione extracomunitaria presente nel nostro Paese e se intende intervenire, anche attraverso campagne di vaccinazioni, che impediscano il diffondersi della meningite su tutto il territorio nazionale. Ancora una volta la superficialita’ e l’incapacita’ del governo nella gestione della cosa pubblica produce danni gravissimi per i cittadini italiani. Incalcolabili sarebbero quelli dovuti all’estendersi di un contagio che potrebbe provocare molte vittime, in primo luogo proprio tra gli immigrati".
fonte: Forza Italia

Una donna muore di malaria L’esperto: rischi sottovalutati

Si tratta di un trend in diminuzione, ma i casi di malaria continuano a registrarsi anche nel nostro Paese: 630 nel 2006, con tre morti. Quasi sempre ad ammalarsi sono immigrati residenti in Italia e che rientrano dai paesi di origine, ma consistente è anche la quota di italiani viaggiatori che non si sottopongono alla necessaria profilassi prima di partire per mete esotiche. E dopo il caso della donna di Arezzo, rientrata da un viaggio in Senegal e morta dopo 20 giorni di agonia, gli esperti invitano ad alzare la guardia.
Il rischio di malaria, avverte il direttore del Centro Oms di Medicina del turismo Walter Pasini, «si presenterà quasi certamente in altri viaggiatori di ritorno dalle vacanze invernali in paesi tropicali e subtropicali». Con l’aggravante che in gennaio, mese in cui si verifica il picco dell’epidemia influenzale stagionale, vi può essere il rischio che la sintomatologia malarica venga confusa con quella influenzale».
«È quindi di fondamentale importanza, sottolinea, che il viaggiatore con febbre, reduce da un viaggio in aree tropicali, dia al medico l’informazione del viaggio effettuato. Il periodo di incubazione della malaria è di una settimana fino a 3 mesi, ma se diagnosi e terapia sono tempestive, il paziente ha ottime probabilità di guarire».
fonte: Il Giornale

lunedì 7 gennaio 2008

Vescovo anglicano: la scelta multiculturale ha promosso l’estremismo islamico

Londra- La promozione della società multiculturale e multireligiosa, voluta dai governi inglesi, in nome della laicità, ha finito con l’alimentare l’estremismo islamico, dando vita, in Gran Bretagna, a vere “aree vietate” per coloro che non sono musulmani. La denuncia viene dall’arcivescovo anglicano di Rochester, Michael Nazir-Ali, che è nato in Pakistan.
In un articolo pubblicato sul Sunday Telegraph, il vescovo sostiene che negli ultimi 50 anni, da un lato l’arrivo di un gran numero di immigrati, dall’altro la perdita di fede degli inglesi nei confronti dei valori cristiani e la convinzione dei politici che il modello multiculturale avrebbe facilitato l’integrazione dei nuovi arrivati, hanno finito col creare “aree separate”. “Accanto a questi sviluppi, c’è stata una rinascita mondiale dell’ideologia dell’estremismo islamico. Uno dei risultati è stato il rifiuto dei giovani verso la nazione nella quale stavano crescendo ed anche la trasformazione delle comunità separate in aree di non-ingresso, nelle quali l’adesione a questa ideologia è divenuta un requisito di accettazione”.
Inoltre, “ci sono già pressioni per riportare aspetti della sharia nella legge civile inglese. E’ già così per le banche conformi alla legge islamica”. “Per i cristiani è già meno possibile, in Gran Bretagna, vivere pubblicamente la propria fede”. “L’esistenza di cappelle e cappellani in luoghi come ospedali, prigioni ed altre istituzioni, come quelle scolastiche, sono in crisi sia per i tagli finanziari, sia perché le autorità vogliono strutture ‘multireligiose’, senza riguardo per le caratteristiche cristiane della nazione riguardo a leggi, valori, costumi e cultura”.
Fonte: Asianews

sabato 5 gennaio 2008

Berlino apre la prima casa di riposo gay

Prima o poi doveva accadere. E ad aprire la strada è Berlino, che conferma, ancora una volta, l’obiettivo di contendere ad Amsterdam il titolo di capitale europea del movimento omosessuale. Sulle rive della Sprea sorgerà una casa di riposo appositamente creata per gay e lesbiche. È, a quanto pare, una prima volta assoluta nel vecchio continente.
La struttura, realizzata dall’organizzazione «Village», aprirà i battenti il prossimo 18 gennaio a Pankow, un quartiere nord-orientale della capitale, dove la vecchia Germania Est aveva concentrato le sedi dei principali ministeri, e potrà ospitare fino a un massimo di 28 persone, in 18 camere singole e 5 doppie.
La casa di riposo non sarà comunque completamente off-limits agli anziani eterosessuali, che potranno fare domanda per essere accolti. Oggi, secondo le stime, oltre 1.300 anziani tra gay e lesbiche sono ospitati a Berlino in strutture pubbliche. Una cifra che conferma la forte e tradizionale presenza di omosessuali nella vita della città.
Omosessuale è del resto anche il sindaco, Klaus Wowereit, diventato famoso per il suo outing pubblico qualche anno fa («Sono gay e va bene così»), spesso fotografato con il fidanzato e sempre in prima fila nelle manifestazioni omosessuali, nonchè esponente di punta del partito socialdemocratico. A completare il quadro della città il record fatto segnare a fine 2007, quello dei single: in tutto sono 1,7 milioni le persone che vivono da sole. Un primato a cui la presenza gay ha dato un contributo significativo.
Quanto alla storia, a Berlino (che ospita lo Schwules Museum, l’unico museo europeo dedicato alla storia del movimento gay) è nata la prima rivista del movimento omosessuale: Der Eigene, pubblicata a partire dal 1897. Mentre negli anni Venti, e fino alla salita al potere del nazismo, la città divenne il centro di raccolta di un movimento gay famoso per la vita notturna e per i cabaret nella zona di Nollendorfplatz (ancora oggi uno dei centri della vita omosessuale berlinese) in cui tra l’altro esordì una giovanissima Marlene Dietrich. Allora come oggi l’atteggiamento della città sembra ispirato alla massima tolleranza. Confermata, anche a livello nazionale, dalla recente rivelazione di Anne Will, una delle più conosciute giornaliste televisive tedesche. In novembre la Will ha dichiarato di essere lesbica e di convivere da cinque anni con una collega. Da allora le due sono ospiti fisse di riviste impegnate e periodici di gossip. La loro popolarità non ne ha risentito. Un giornale ha deciso che sono addirittura la «coppia dell’anno».
fonte: Il Giornale

Visco jr assunto a Sviluppo Italia

È Sviluppo Italia spa (ora Agenzia Nazionale per l'attrazione investimenti e lo sviluppo di impresa) ad aver assunto Gabriele, che a lui ha riservato un ufficio, uno staff al seguito, e un bel cartellino fuori della sua porta con sopra scritto «Dirigente». Una scalata degna di nota. Specialmente se si considera che Visco junior era entrato per la prima volta nella società controllata da via XX Settembre a luglio, il primo, per un breve periodo di consulenza di tre mesi, che si è concluso l'ultimo giorno di settembre. Quanto guadagni ora non è noto, ma quanto ha guadagnato prima sì: ben quarantaseimila euro in circa novanta giorni. Insomma, una scalata lampo. Dalla consulenza alla dirigenza in meno di un anno.
E come scrive ItaliaOggi non sono messe sicuramente in dubbio le ottime qualità del giovane Visco, ma della sua carriera si conosce solo una sua esperienza a Telecom, e la sottoscrizione insieme a tutta la sua famiglia - spiega Stefano Sansonetti - di una petizione che chiedeva di intitolare un largo del parco di Villa Ada alla memoria di Gianni Grasso, un sociologo e studioso di biotica.
Già a luglio, quando Gabriele Visco era stato preso come consulente a Sviluppo Italia, si erano scatenate le polemiche.
Isabella Bertolini, deputata di Forza Italia, aveva parlato del viceministro come «il fustigatore degli italiani» che «si trova ancora una volta al centro di una vicenda da chiarire. Ricapitoliamo: Visco il "censore" degli italiani - prosegue Bertolini - non esitava a scagliarsi contro i condoni edilizi, salvo poi essere condannato per abusivismo edilizio nella sua villa a Pantelleria. Poi si è reso protagonista di uno degli scandali più gravi della nostra Repubblica rimuovendo il Comandante della Guardia di Finanza, perché svolgeva indagini sui suoi compagni di partito. Oggi ce lo ritroviamo nuovamente nell'occhio del ciclone perché il figlio fa parte di una serie di assunzioni eccellenti della società pubblica Sviluppo Italia».
E a portare definitivamente il figlio del numero due del ministero dell'Economia dentro le mura di Sviluppo Italia è stato proprio l'amministratore delegato della società, Domenico Arcuri. L'ad difese la posizione di Gabriele, lavoratore come altri ma dal cognome di grande rilievo. Arcuri disse in una intervista che non esistevano raccamandazioni e che non c'era niente di male se il figlio di Vincenzo Visco era stato preso a lavorare in una società del ministero dell'Economia. Ed è chiaro, che l'ad ha così posto il suo sigillo di garanzia sulle qualità del ragazzo neoconsulente. Tanto bravo da meritare un posto da dirigente.
Ma - come spiega ItaliaOggi - non è la prima volta che Sviluppo Italia ha a che fare con dei casi di «parentopoli». Ha portato avanti la sua scalata anche Bernardo Mattarella, figlio dell'esponente dell'Ulivo ed ex ministro della Difesa Sergio Mattarella. Per Bernardo il percorso fu simile a quello di Visco junior: è entrato senza fare troppo rumore, poi la piccola escalation è diventata sempre più grande.
Fonte: Il Tempo

venerdì 4 gennaio 2008

L'aborto è un omicidio, lo dice la scienza

Dirò subito quello che penso, e pazienza se sarò espulso dal politicamente corretto consesso civile: l'aborto è un omicidio. Mi correggo. Che l'aborto sia un omicidio non è «quello che penso»: è una verità oggettiva, sperimentalmente verificabile da chiunque, basta osservare un'ecografia. A causa di questa evidenza, appiccicare l'infamante marchio di «baciapile» a chi, come me, dice che «l'aborto è un omicidio», è una reazione sterile, inefficace e un po' vigliacca da parte di chi non ha altri argomenti se non quello di squalificare come retrogrado e bigotto chi lo mette di fronte a un fatto incontestabile.
La fede religiosa qui conta zero, anzi meno di zero: ripeto, bastano gli occhi e la ragione per rendersi conto che con l'interruzione di gravidanza si distrugge una vita che è già cominciata. Che è già cominciata e che - come dimostrano tutti gli studi medici in materia: ripeto medici, non teologici - ha già una sua particolarissima autonomia, tanto che interagisce con la mamma e prova sensazioni positive o negative che lo segneranno anche dopo la nascita.
Fa veramente tristezza sentir ripetere ancora oggi che «solo la donna ha il diritto di decidere». È fin troppo facile rispondere a queste persone che anche loro furono embrioni, e che oggi non potrebbero dire quello che dicono se le loro madri avessero deciso che eliminarle era un «diritto».
Basta ipocrisie, qui non è in gioco solo la libertà della donna: è in gioco anche la libertà di esistere a chi c'è già. Per questi motivi, credo che sia sbagliata perfino la posizione di quei cattolici che dicono: «applichiamo la 194 anche nella sua parte che tutela la gravidanza». Sì, so perfettamente che la 194 prevede norme che incentivano la donna in difficoltà a scegliere la strada giusta, che è quella di non sopprimere il bambino.
E so perfettamente, anche per esperienza familiare, che negli ospedali e nei consultori pubblici chi cerca di applicare quelle norme è ostacolato, quando non insultato come «terrorista», da chi sponsorizza la soluzione più veloce, che è l'aborto.
Ma, anche se nella 194 c'è questa parte «buona» da valorizzare, penso che quella legge sia intrinsecamente sbagliata, perché rende legale un omicidio. Si obietta che prima si abortiva lo stesso, e in condizioni più pericolose per le donne. Vero. Ma a quella piaga si sarebbe dovuto reagire facendo di tutto per impedire situazioni del genere e aiutando le mamme in difficoltà: non legalizzando l'errore. Anche i furti, gli stupri e le rapine in villa esistono: ma nessuno si sogna di risolvere il problema rendendoli legali e controllati dallo Stato. Che sia chiaro, chiarissimo: io non voglio che la donna che abortisce vada in galera. Ma ritengo che il danno della 194 non sia la sua incompleta applicazione.
Il danno è che ha confuso le coscienze, ha creato falsi alibi, insomma ha instillato in molte donne (e in molti uomini: perché non dimentichiamoci che, così come si genera in due, si abortisce in due) la convinzione che l'aborto, se lo Stato lo consente, non è poi così sbagliato. È questa la colpa grave, gravissima, della 194, anzi di ogni legge che permette l'interruzione di gravidanza. E vengo al dibattito politico di questi giorni. Del dialogo destra-sinistra, del confronto tra laici e cattolici, dei rischi di spaccature, sconfitte politiche eccetera, non me ne
frega niente. Certi scrupoli vanno bene quando si discute di riforma elettorale o di finanziaria: non quando si tratta di affermare un principio incontestabile, e cioè che un omicidio non può essere considerato lecito. Mi inquietano anche certe prudenze della Chiesa. Con tutto il rispetto, non capisco come mai sia così intransigente sulle unioni civili, e timorosa nel chiedere l'abolizione della legge sull'aborto.
Personalmente penso che anche in materia di matrimonio e famiglia la posizione della Chiesa corrisponda a una legge naturale; ma non c'è dubbio che per l'uomo di oggi sia molto più facile capire (che non vuol dire ammettere: ma capire sì) l'errore dell'aborto che non quello dei Dico. Ma poi: perché aver timore di perdere una battaglia politica? Ci sono cause che vanno combattute a prescindere dal risultato.
Ci scandalizziamo per la pena di morte e la fame nel mondo, ma forse la nostra generazione sarà giudicata soprattutto per aver eliminato, con la benedizione della legge e con la quieta coscienza del mondo perbene, cinquanta milioni di bambini all'anno.
Il Giornale di Michele Brambilla

giovedì 3 gennaio 2008

La moratoria sulla pena di morte. Il boia è già al lavoro in Iran: in un giorno 13 impiccagioni

L’Iran, uno dei Paesi con il più alto numero di esecuzioni capitali, che si è opposto duramente alla recente moratoria approvata dall’Onu, apre il 2008 con 13 impiccagioni, delle quali tre sulla pubblica piazza.
Le esecuzioni sono avvenute tutte ieri all’alba: otto nel solo carcere di Evin a Teheran, tre a Qom, in pubblico, e due a Zahedan, nel sud-est del Paese. Gli otto impiccati a Teheran erano stati tutti condannati per omicidio. Tra di loro una donna, Raheleh, di 27 anni, madre di due bambini, riconosciuta colpevole di avere ucciso con un colpo di spranga il marito durante una lite dopo averlo sorpreso in casa con la sua amante, nella primavera del 2005. Successivamente ne aveva fatto a pezzi il cadavere.
La magistratura aveva concesso a Raheleh un rinvio dell’esecuzione, che inizialmente era stata programmata per il 19 dicembre scorso, per dare tempo eventualmente ai familiari del marito di concederle il perdono. Ma il perdono non è arrivato.
il Giornale